7.5
- Band: COSCRADH
- Durata: 00:40:38
- Disponibile dal: 05/08/2022
- Etichetta:
- Invictus Productions
Spotify:
Apple Music:
Un demo e due EP, tanto ci è voluto ai Coscradh per arrivare a un primo full-length sin dal loro concepimento nel 2015; due EP pregni di una malevola sostanza grondante death metal, di quello catacombale, ossessivo, che non lascia traccia di umanità, che nasconde le melodie sotto un cuscino di melmose carcasse. E se già nelle precedenti sortite una sorta di elasticità sembrava far capolino qua e là, per il loro debutto di minutaggio consistente (una quarantina di minuti per cinque brani), gli irlandesi hanno dedicato le loro energie alla creazione di muri di suono claustrofobici e spietati, tagliando i passaggi più morbidi come vili rami secchi, concentrandosi unicamente alla distruzione sonora e a una bestialità più che radicale. Un po’ un must per questa cricca di death metaller che sotto l’egida della Invictus (cui fa riferimento tutta la banda dei vari Vircolac, Sacrilegia, Malthusian, e i cui musicisti si ritrovano pure qui) generano terrore e raccapriccio dalle ieratiche terre dublinesi. Questo “Nahanagan Stadial” (termine che va a descrivere un’era glaciale che avvolse l’Irlanda un diecimila anni fa estinguendo ogni cosa vivente in loco) è un vero e proprio upgrade delle velleità dei Coscradh, dove si irrobustiscono in maniera notevole le contaminazioni black e, come detto, l’apparato melodico viene relegato a qualche breakdown facilmente memorizzabile e forse qualche riff un po’ meno vomitante solida rabbia. Per il resto i Nostri percorrono una strada di giri di chitarra impietosi, urla raccapriccianti, veloci cambi di tempo e una solida base di metallo mortifero estremo e ossessivo. Insomma, un punto d’incrocio fra le velleità di un death old-school (lo si senta in certi riff) e una costruzione delle canzoni molto in voga nel comparto più efferato del death metal dissonante che gira ultimamente. A fare da ciliegina un suono che risulta a modo suo ben definito all’interno del suo caos, gli strumenti si sentono ben chiari nella loro subitanea necessità d’espressione, senza mediare con suoni plasticosi o costruiti (o volutamente lo-fi), bensì rovesciando nella mente dell’ascoltatore la grettezza primigenia di una sala prova marcia e ammuffita come i brani di questo disco lasciano supporre. Una violenza continua, inframezzata da qualche piccola nota di respiro, dove le parti più ‘musicali’ sembrano scritte apposta per sembrare malate. Forse non consigliato a neofiti o digiuni di certe sonorità, ma davvero notevole e capace di crescere con gli ascolti. Nome da non lasciarsi sfuggire, insomma.