8.5
- Band: CREED
- Durata: 01:01:11
- Disponibile dal: 28/09/1999
- Etichetta:
- Wind-Up Records
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Dopo essersi annunciati al mondo intero con “My Own Prison” (1997), lavoro per certi versi ancora acerbo ma forte di singoli spacca-classifiche come la title-track, “What’s This Life For” e “One”, un paio d’anni dopo i Creed sono pronti per la definitiva consacrazione con “Human Clay”, che dall’alto dei suoi venti milioni di copie (di cui più della metà in madrepatria) li consegna nell’Olimpo della Top 100 di sempre negli Stati Uniti, davanti a dischi apparentemente più famosi come “Nevermind” e “Hybrid Theory”. A differenza di Nirvana e Linkin Park, la loro fama è perlopiù circoscritta agli States (non a caso le date in Europa saranno pochissime, tra cui uno storico show gratuito al Rolling Stone nel dicembre del ’99), facendone i portabandiera di quel filone post-grunge che soffia sulle braci agonizzanti del Seattle sound col mantice dell’allora imperante nu metal. Alla stregua dei Godsmack, accusati all’epoca di scimmiottare gli Alice In Chains, allo stesso modo i Creed furono subito bollati dai detrattori come una brutta copia dei primi Pearl Jam (complice un’effettiva somiglianza tra la timbrica di Eddie Vedder e Scott Stapp), con l’aggravante di un retrogusto christian rock che tranquillizzava i genitori spaventati dal famigerato bollino ‘Parental Advisory: non stupisce quindi che, qualche anno dopo, siano stati votati dai lettori di Rolling Stones come ‘Peggior band anni ’90/00‘, davanti a campioni del genere come Limp Bizkit e Nickelback. Col privilegio di poter guardare le cose a vent’anni di distanza, possiamo dire che – se pur figlio del suo tempo e agevolato dalle circostanze – “Human Clay” resta un ottimo disco alternative rock/metal, e i Creed una band dall’enorme talento, che troverà poi definitiva consacrazione nei più maturi (e infatti meno ‘platinati’) Alter Bridge.
Ma riavvolgiamo il nastro alla fine del secolo scorso, quando ancora non esistevano social e YouTube: il primo impatto con i Creed per chi scrive è dato dal video di “Higher”, con uno Stapp in versione Nicolas Cage (pantaloni di pelle e canotta bianca) e un uso dello slow motion a là Matrix; col senno di poi un video invecchiato male (i giovani d’oggi lo definirebbero cringe), ma il pezzo resta un anthem pieno di speranza, con una progressione chitarra-voce rimasta tra le cose migliori mai scritte dai quattro. Un discorso simile vale per il secondo singolo “What If” – più accostabile al nu metal per la tipica alternanza di pieni/vuoti, e mediatamente trainato dalla colonna sonora di “Scream 3” – anche se la consacrazione definitiva avviene con la power ballad “With Arms Wide Open”, terzo estratto che sbanca la classifiche vincendo anche un Grammy: al netto delle facili retoriche sul testo (siamo sempre negli anni di “Armageddon” e “Titanic”) ancora oggi è difficile restare insensibili alla commistione tra gli arpeggi di Tremonti e la timbrica baritonale di Stapp, calda e vellutata come il già citato Vedder di “Black”. Ma, a differenza del debutto, oltre ad una manciata di singoli di successo stavolta c’è molto di più. Se la graffiante “Are You Ready” è un’opener che suona come una minacciosa dichiarazione d’intenti, già le strofe granitiche di “Beautiful”, capaci di sciogliersi nel bridge come lava vellutata per poi solidificarsi di nuovo, rendono chiara la doppia anima dei Creed. A confermarcelo ecco i chiaroscuri di “Say I”, con un magistrale lavoro del bassista Brian Marshall, così come “Faceless Man”, praticamente due pezzi in uno con la prima parte semi-acustica che alza il livello emozionale rendendoci più vulnerabili quando arriva la distorsione, in un tripudio di overdub che rappresenta un altro dei picchi della premiata coppia Tremonti/Stapp. Ritmiche alternative metal sono ancora quelle che caratterizzano “Never Die”, mentre sul finale l’atmosfera si fa più malinconica, abbassando leggermente la qualità complessiva. Se “Wash Away Those Years” offre almeno l’ennesima prestazione da pelle d’oca di Stapp dietro al microfono, la conclusiva “Inside Us All” nulla aggiunge a quanto già sentito finora, così come le due bonus track (“Young Grown Old”, presente solo nell’edizione europea, e una versione con l’orchestra di “With Arms Wide Open”).
Forse, più una pietra miliare per segnare il passaggio di un’epoca che un capolavoro in senso stretto (per quello bisognerà aspettare i primi due dischi degli Alter Bridge), ma riascoltato oggi “Human Clay” resta un lavoro ricco di ottimi spunti se pur all’interno di stilemi ben codificati, con un cantante dall’enorme talento che proprio il successo di questo disco porterà ad un passo dall’autodistruzione, vittima di quel successo materialista da lui stesso osteggiato.