9.0
- Band: CRIMSON GLORY
- Durata: 00:38:51
- Disponibile dal: 10/20/1986
- Etichetta:
- Par Records
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Uno dei filoni auriferi interrotti del metal classico, riapparso molto raramente fuori dal suo periodo di massimo successo, è il progressive metal come lo si intendeva fra seconda metà anni ’80/inizio anni ’90. All’epoca, il progressive era ancillare alla componente metallica, serviva a complicare il discorso di band che per il resto aderivano a una concezione tradizionale dell’hard’n’heavy e andavano a perfezionare, limare, articolare quanto di buono era stato fatto da ambo le parti dell’oceano in campo classic metal negli anni precedenti. Quella commistione così ben equilibrata è durata poco: la deriva verso l’ipertecnicismo, le suite, la melodia pervasiva ha portato a un’evoluzione del concetto di prog metal lontana da quello che avevano professato le prime compagini etichettabili con tale definizione. Stabilire se sia stato un bene o un male è questione di gusti, ci mancherebbe, certo che un album come il primo, omonimo, dei Crimson Glory, non lo si ascolta da oltre vent’anni. Trenta o suppergiù (uscì il 20 ottobre del 1986) sono invece le annate trascorse dalla sua venuta alla luce sui mercati. In questo lasso di tempo, non ha perso nulla del suo irresistibile fascino. Si incontrano molte peculiarità non per forza assonanti tra loro qua dentro: la tentazione alla melodia commerciale, poi deflagrata nel terzo disco “Strange And Beautiful”; la consistenza superbamente d’acciaio delle ritmiche; i sentori romantici delle soliste; la multiforme arditezza delle vocals di Midnight, il tratto più distintivo di tutto l’apparato sonoro dei floridiani. Rispetto ai coevi Fates Warning e Queensrÿche, le formazioni con le quali andavano a formare una sorta di triangolo d’oro del prog a stelle e strisce, i Crimson Glory dei primi due album erano una creatura più squisitamente metallica, meno complicata, e ciò è vero a maggior ragione per l’esordio. Intanto, basso e batteria si comportano con molta compostezza, limitandosi a dettare – bene – le cadenze, relativamente lineari, all’interno delle quali sono le chitarre a imporre la loro legge e il singer è libero da imposizioni per le sue vocals umorali. “Valhalla” è il tipico pezzo di apertura di quegli anni: riff magnetico, cadenzato incalzante, la solista a brillare e incantare severa e accecante, la voce che si staglia lirica su tutto il resto. L’epos emerge stentoreo, certe sottigliezze usciranno meglio in “Transcendence”, qui l’impeto anthemico fa ancora la voce grossa. In “Dragon Lady” si comincia a notare un’eleganza che solo in quegli anni andava affermandosi nell’heavy metal, le chitarre dialogano taglienti, si uniscono e si allontanano in un gioco di compenetrazioni ed effusioni ereditato dai migliori Judas Priest. Il richiamo ad altere figure femminee è un topos ricorrente nell’immaginario dei Crimson Glory, che si addentrano in territori sempre più ambigui all’altezza di “Heart Of Steel”, quando i tormenti già allora attraversanti Midnight sfociano in un testo drammatico, esplorativo di un lato oscuro dove i sentimenti non si esplicano mai del tutto e la vigoria metallica non nasconde laceranti dissidi interiori. “Azrael” è il capolavoro nel capolavoro: un inno che più ottantiano non si potrebbe, retto da un giro di basso semplice ma memorabile di Jeff Lords, condotto per mano dal singer fra le note più basse delle prime strofe e la salita, impetuosa, verso il chorus e il conseguente richiamo a questo angelo, Azrael, cui si tende per salvarsi dagli Inferi ormai prossimi. Il lato B non scende sotto l’eccellenza, inaugurato da un brano che fa il paio con l’opener quanto a impatto. “Mayday” però è una speed metal song purissima, che col progressive c’entra poco o nulla. Si allontana abbastanza dal mood delle altre tracce, anche se non sfigura assolutamente sul piano qualitativo. “Queen Of The Masquerade” ritorna a ricamare atmosfere pompose, spostandosi su un hard rock cromato nel riff principale, anticipando da una parte le derive hair metal di qualche anno più avanti, dall’altro mantenendo alto il tasso di romanticismo del lavoro. A “Angels Of War” il compito di inoltrarsi in atmosfere sospirate, dilatate, scivolanti in una malinconia inedita per l’epoca in questo tipo di metal: un altro grande pezzo, un’altra traccia di cui è difficile trovare paragoni credibili in anni più recenti. “Lost Reflection” annega all’inizio in un toccante minimalismo, solo chitarra, voce e limitate tastiere sono lasciate a disegnare una struggente storia di isolamento, emarginazione dal mondo. Un breve strappo felino verso la chiusura rappresenta solo uno scatto di rabbia verso un mondo che si oppone all’Io narrante, lo chiude in una stanza, lo lascia agonizzare nei suoi tormenti. Forse un’anticipazione del destino errabondo del singer, chissà. Certamente un’amara ballad quasi ineguagliabile su queste avvilite tonalità, degna conclusione di un album leggendario, uno dei tanti di quella magica annata che fu il 1986.