8.5
- Band: CRISIS
- Durata: 00:55:19
- Disponibile dal: 07/10/1997
- Etichetta:
- Metal Blade Records
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Fire is the colour of my eyes…
Se nel 1994, con la pubblicazione dell’esordio ultra-underground “8 Convulsions”, i Crisis misero fuori la loro atipica testa dalla nascosta tana del verme, e se nel 1996, anno di uscita del terrificante (in senso buono) “Deathshead Extermination”, la band esordì con il botto su Metal Blade, è nel 1997 che in un certo senso il gruppo della pioniera delle frontgirl del metal estremo, Karyn Crisis, giunge a piena maturità mostrando tutta la propria classe e tutti i propri angoscianti malanimi in un terzo disco che, sebbene all’epoca forse non venne del tutto compreso, riascoltandolo oggi risplende fulgido di un’oscurità dilaniante, di un disagio alienante e di una sofferenza palpabile a occhio e mani nude.
Ventisette anni fa, tanto il tempo trascorso, Karyn era ben lungi dall’essere quella del presente, un’artista a tutto tondo, empatica e sensibile, dalle forti capacità medianiche e curative: la Karyn di allora era una ragazza tormentata, fragile, desiderosa ma incapace di conoscere realmente se stessa, e che trovava sfogo pieno e sublime nel canto liberatorio, schizofrenico e taumaturgico con cui cesellava le composizioni dei Crisis, strutturate dal fedele chitarrista pakistano Afzaal Nasiruddeen attraverso rimandi poderosi al noise-core, allo sludge, al doom, ad un thrash-death metal stranissimo e straniante, dotato di fondamenta progressive ed un’esecuzione/interpretazione praticamente punk-hardcore. Questi erano i Crisis di New York, un quartetto che faceva della commistione etnica uno dei suoi punti di forza, considerato che a completare la formazione c’erano il sudcoreano Gia Chuan-Wang al basso e lo yankee Fred Waring alla batteria.
“Deathshead Extermination” dell’anno prima – probabilmente il capolavoro assoluto dei Nostri – aveva dato una forma-canzone più standardizzata alle follie contenute di “8 Convulsions”, e la prestazione di Karyn risultava del tutto allucinante. Nel qui presente “The Hollowing”, il cui cover artwork è un capolavoro di disturbo e malessere, la band decide di ridimensionare un pelo le parti fuori di zucca e comporre qualcosa di più accessibile, solido, uniforme e focalizzato. Karyn si trattiene – solo in parte, sia chiaro – e, senza più cercare a tutti i costi la tortura delle corde vocali, lascia che siano le canzoni a guidare la sua voce e non viceversa, come in qualche occasione accadeva nei dischi precedenti. Il riffing di Afzaal si fa più riconoscibile, cupo e marziale, pur mantenendo un’imprevedibilità di base molto marcata; la produzione di Steve McAllister è perfetta per il tipo di emozioni che il gruppo vuole trasmettere, con una sezione ritmica potente ma anche glaciale ed una chitarra ‘grassa e sporca’ eppure limpida come acqua di torrente; la voce di Karyn è lì, moderatamente più educata del passato e più consapevole del suo potere, in grado di prodursi in grida lancinanti, strofe filastroccate o simil-rappate, oppure in nenie catatoniche, in pratica un vero psicofarmaco sonoro.
Il lavoro dietro le pelli, pur rimanendo Waring il titolare del posto, viene diviso tra più batteristi: Jason Bittner, poi all’opera in Shadows Fall, Flotsam & Jetsam e di recente uscito dagli Overkill; Chris Hamilton, oggi negli A Pale Horse Named Death e passato anche dai Downset; Roy Mayorga, oggi nei Ministry, ma prezzemolino di decine di band, tra cui Soulfly e Stone Sour. Completano la pletora di ospiti due nomi di culto: Sammy Pierre Duet degli Acid Bath e Norman Westberg dei Swans. Come si può ben evincere dai guest coinvolti, la qualità di “The Hollowing” si attesta e resta su livelli molto elevati.
La tracklist, composta da undici tracce delle quali due strumentali, è ben pensata e ordinata, in modo da rendere l’ascolto completo dell’album non pesante e sempre interessante: “Mechanical Man” apre le danze in modo diretto ed efficace, brano breve e relativamente semplice, con un lieve afflato psichedelico ma dal groove portante trascinante e d’impatto; la seguente “In The Shadow Of The Sun”, a cui possiamo associare la più nervosa “Vision And The Verity”, inizia a sviscerare il tormento interiore della frontgirl tramite riff dondolanti e pigramente sabbathiani, chitarre slabbrate e arrangiate magistralmente, il tutto risvegliato però dagli strilli di Karyn e dalle evoluzioni di una parte ritmica sempre coinvolta alla grande; in mezzo a questi due episodi, ecco presentarsi “Fires Of Sorrow”, l’apice più oscuro e cimiteriale di “The Hollowing”, aperto da una linea di basso elefantiaca e da un’esplosione di latrati e chitarre assolutamente devastanti; in questa traccia Karyn si cimenta con il dolore della perdita di un qualcuno di caro, ma lo fa con la sua poetica tragica e spaventosa, per un testo che risuona davvero disperato quando unito alla musica.
Prima della rilassante epopea strumentale di “After The Flood”, che fa il paio con la dinamica chiosa finale di “Come To Light” nel fornire relative oasi di pace al termine di sessioni pesantissime di terapia, troviamo “Kingdom’s End”, episodio che, come poi faranno “Sleeping The Wicked” e “Take The Low Road”, affonda più nel noise e nello sludge-core, sempre resi in modo personalissimo e originale, condensando le diverse anime del gruppo in un compatto e irrisolvibile cubo di Rubik, e pazienza se il saltellante groove finale pare preso di peso da “Korn” o “Life Is Peachy”, pubblicati poco tempo prima. “Sleeping The Wicked” e “Take The Low Road”, dal canto loro, esplorano il lato più movimentato e ‘veloce’ della musica dei Crisis, emergendo dagli abissi di corpi dannati per avvolgersi attorno a sogni di anime perdute. Karyn qui dimostra di trovarsi a proprio agio, così come di trovare linee vocali e timbri più accessibili per un pubblico più open-minded. Chiudiamo la disamina con i due pezzi più progressivi del lotto e, quasi certamente, meno immediati: “Discipline Of Degradation” arriva alla fine di oltre tre quarti d’ora di delirio ed è il colpo finale a sinapsi già malandate, eppure nei suoi saliscendi infernali conserva un’orecchiabilità sorprendente; “Surviving The Siren”, invece, segue il pentagramma di “Methodology” dal disco precedente e anticipa quello di “Secrets Of The Prison House” dal successivo (e ultimo vagito Crisis) “Like Sheep Led To Slaughter”: canzoni apocalittiche, da fine del mondo, con i giri orientali di Afzaal a farla da padrone e strutture ondose ed in crescendo atte ad accompagnare i demoniaci singulti di Karyn, in questi casi totalmente dicotomici.
Siamo pressoché sicuri che “The Hollowing” non sia il disco che consiglieremmo ad un neofita per iniziarlo alla conoscenza del verbo Crisis, ma siamo altrettanto certi di come tale disco stia invecchiando magnificamente, suoni moderno e all’avanguardia anche ora e sia una delle fotografie migliori che questa sottovalutata formazione abbia dato di sé. Rispolverare subito.
…burns straight to the inside.