7.5
- Band: CROSSBONES , DARIO MOLLO’S CROSSBONES
- Durata: 00:41:14
- Disponibile dal: 14/05/2016
- Etichetta:
- Jolly Roger Records
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L’operosa etichetta discografica nostrana Jolly Roger ha riportato alla luce un brillante gioiello multisfaccettato di hard’n’heavy deluxe, rilasciato oltre venticinque anni fa dagli esordienti Crossbones. In quella specifica occasione, il collettivo ligure si è avvalso dei preziosi servigi del celebre produttore Kit Woolven (Think Lizzy, Wild Horses, Magnum e mille altri), il quale ha donato una marcia in più all’opera, plasmando un costrutto sonoro estremamente nitido e potente. Guidati dallo sfavillante estro compositivo di Dario Mollo, i quattro protagonisti confezionano nove episodi eterogenei e cangianti, dai quali emerge sovente un marcato aroma neoclassico in chiave solista. Rainbow e Loudness figurano come i principali punti di riferimento della giovane promessa tricolore, ma le inevitabili influenze artistiche esterne vengono ampiamente ridimensionate da una capacità di scrittura e di interpretazione al di sopra della media. Come gustosa ciliegina sulla torta figura come ospite speciale l’attuale tastierista dei Deep Purple, Don Airey, il quale contribuisce con garbo ad arrotondare certe spigolosità ad alto voltaggio, mediante eleganti mosaici scolpiti con gran gusto sui tasti d’avorio. Sin dalle prime battute, il cromato anthem “Fallen Angel” ci trascina nella ribollente Los Angeles tutta lacca e make up di fine anni Ottanta. La gagliarda “Venom” invece vanta un riffing affilato ed accattivante, che sembra provenire dalle dita del maestro Akira Takasaki. “Iron The Soul” e “Bad Dreams”, invece, si presentano come due lampanti esempi di anfetaminico heavy metal, entrambe impreziosite dalle tempestose scorribande chitarristiche disegnate dal buon Mollo. Si rivela altresì ammirevole la performance offerta dal cantante Giorgio Veronesi, il quale nel corso dell’opera palesa una marcata duttilità espressiva, che gli permette di conferire la giusta enfasi ai brani più evocativi, come nel caso del solenne midtempo ‘rubato’ ai Dio, “Cry From The Heart”. Non manca qualche perdonabile ingenuità compositiva, che traspare all’altezza della prolissa “The Promised Land” e dell’inefficace “Fire”, ma codeste incertezze non scalfiscono il valore di un disco meritevole di essere (ri)scoperto senza indugio alcuno.