9.0
- Band: CULT OF LUNA
- Durata: 01:04:40
- Disponibile dal: 17/05/2006
- Etichetta:
- Earache
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I Cult Of Luna sono ormai considerati un colosso della scena post-metal e post-rock, ma nel 2006, quando stavano componendo “Somewhere Along The Highway”, il loro status non era ancora tale. Il genere aveva già visto la pubblicazione di diversi capisaldi, quali “Oceanic” e “Panopticon” degli Isis, “It’s Me God” dei Breach (unica testimonianza del tempo proveniente dall’Europa, e addirittura dalla stessa Svezia) e – soprattutto – le quattro uscite dei Neurosis da “Souls At Zero” a “A Sun That Never Sets”. Eppure, le attese per questo album si erano impennate: la band di Umeå arrivava dal già ottimo “Salvation”, e molti erano sicuri di un’ulteriore evoluzione, anche se probabilmente il risultato andrà oltre le aspettative.
Come molte altre band dedite a queste sonorità, giova ricordarlo, i Cult Of Luna erano nati dalle ceneri una band hardcore, gli Eclipse, nel 1999: gli artefici del nuovo progetto furono il cantante Klas Rydberg, che rimarrà in formazione fino al 2012, e Johannes Persson, tuttora chitarra e voce del gruppo. Il debutto omonimo era un disco che potremmo classificare sotto la voce sludge metal, mentre nel successivo “The Beyond” e nel già citato “Salvation” si potevano intravvedere interessanti novità, sotto forma di incursioni nel post-rock e nel post-metal.
“Somewhere Along The Highway” imbocca con decisione questa strada, con un ammorbidimento dei suoni e l’inglobamento di atmosfere rarefatte e psichdeliche; rispetto ai predecessori, gli ingredienti non sono cambiati, ma è variato il dosaggio, con parti ipnotiche ed ammalianti a prendere il sopravvento sulle sfuriate elettriche. L’effetto è sorprendente: una musica che si poggia su un equilibrio instabile, carica di una specie di calma isterica, sempre sul punto di esplodere, un fiume che scorre inesorabile e che con estrema lentezza travolge tutto ciò che incontra. Banalmente, potremmo prendere spunto dal titolo e parlare di un viaggio, concreto o astratto che sia, lungo una strada che attraversa la nostra percezione ed i nostri sensi, senza una meta precisa ma con il solo scopo di raccontare ciò che accade durante il tragitto; il tema esplorato è spesso quello della solitudine, affrontato con metafore e profonda sensibilità da un punto di vista lirico, mentre, musicalmente, una squadra che consta di ben otto elementi consente una libertà espressiva senza limiti, oltre alla possibilità di sperimentare con soluzioni quali due batterie, tre chitarre o sovrapposizioni di voci.
L’introduzione è affidata a “Marching To The Heartbeats”, con una distorsione iniziale che si scioglie in fragili note di pianoforte, mentre Rydberg recita pochi versi sofferti e declamanti. Con i quasi undici minuti della successiva “Finland” entriamo già nel vivo del disco: tamburi tribali accompagnati da energici riff fanno da contorno ad urla disperate, per poi perdersi in un soave intermezzo acustico e ripartire con chitarre tese e minacciose, in un crescendo di epicità che toglie il respiro; un pezzo emozionante e suggestivo, tanto da essere ancora, a distanza di anni, uno dei punti fissi nelle esibizioni live degli svedesi. “Back To Chapel Town” è oscura, violenta, con un ritmo incostante, fatto di impennate e rallentamenti, ma sempre all’insegna di una forte pesantezza, fino a quando, all’improvviso, la furia si placa e fa capolino un finale sognante, qualcosa che potrebbe appartenere al lato più onirico dei Mogwai. Queste atmosfere quiete continuano con “And With Her Came The Birds”, spiazzante per come si muove tra blues e country, si scorge addirittura un banjo, con una voce che emana un senso di abbandono, ma sembra provenire da un paese desertico e soleggiato più che da una fredda landa del nord. Il lungo arpeggio elettrico di “Thirtyfour” ci riporta alla realtà: un incedere marziale, con la solita, imprevedibile alternanza di assalti veementi ed aperture melodiche, ci conduce attraverso uno stato di allucinazione denso e corposo, con rari momenti di luce. “Dim” è strumentale per lunga parte della sua durata, con le chitarre che sembrano ripetere pochi accordi differenti tra loro solo per l’intensità, prima di una chiusura inaspettata, con un’esplosione vocale e qualche divagazione in stile techno. Ma è con “Dark City, Dead Man” che si toccano apici inarrivabili, in uno dei brani più rappresentativi dell’intera storia del post-metal: un quarto d’ora abbondante di elettrizzanti saliscendi sonori, conditi da una psichedelia che ci trasporta in un’altra dimensione, forte di una portata cinematografica che lascia esterrefatti.
“Somewhere Along The Highway” è un disco essenziale per l’evoluzione del suo genere, un album che, pur essendo una fotografia del momento in cui è stato realizzato e del punto di vista di chi l’ha scritto, è ancor oggi attuale, nonché fonte di ispirazione per decine di band. È difficile stabilire se si tratti del picco creativo dei Cult Of Luna, che nella loro variegata discografia hanno intrapreso percorsi inaspettati e possono vantare altre opere di livello eccelso, ma non si può prescindere da questi sette brani se si vuole capire ciò che è successo in seguito.