9.0
- Band: D.A.D.
- Durata: 00:41:22
- Disponibile dal: 03/03/1989
- Etichetta:
- Warner Bros
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Sopravvissuti alle mode, adattabili ai mutamenti di mercato, fedeli a se stessi senza ripetersi, i D.A.D. rappresentano un caso unico nel panorama hard rock internazionale. A distanza di trentaquattro anni e otto giorni dal primo concerto del 3 dicembre 1982 al Sundby Algaard di Copenaghen, ne celebriamo volentieri le gesta occupandoci della gemma più splendente all’interno della loro discografia, “No Fuel Left For The Pilgrims”. Un album che a distanza di ventisette anni ha mantenuto intatta la sua scanzonata verve, riflettente un modo di intendere la musica e di calcare il palco inconfondibili. I D.A.D. possono essere definiti senza timore di smentite una realtà integerrima e incorrotta, che porta avanti il verbo del rock’n’roll con una spensieratezza persa nel tempo da quasi tutti gli ensemble loro coevi. Ovviamente, se esistono ancora. E se tengono ancora concerti e incidono dischi, lo fanno nella maggior parte dei casi con una line-up rimaneggiata, posticcia, raramente rispecchiante la grandezza degli anni giovanili. Ciò non capita assolutamente ai D.A.D., per tre quarti composti dagli stessi elementi – i fratelli Jacob Binzer (chitarra solista) e Jesper Binzer (voce principale e chitarra ritmica), il bassista Stig Pedersen – protagonisti fin dalle prime battute e autori dell’acerbo esordio “Call Of The Wild” (1986). Il quarto musicista è oggi Laust Sonne, dietro i tamburi dal 1999, in sostituzione del membro fondatore Peter Lundholm Jensen. Gli anni ’80, si sa, sono stati l’epoca d’oro dei party scatenati, degli eccessi, della leggerezza eccentrica del glam e dell’hair metal e, nell’ottica di dare un’adeguata collocazione stilistica ai D.A.D. in quel periodo, la definizione di band glam ci può stare. Ma allora come adesso, l’idea di divertimento dei quattro nordici, partiti con uno dei moniker più belli nella storia del rock, Disneyland After Dark – abbreviato nella sigla attuale per non incorrere in ire della Disney quando è arrivato il grande successo proprio con “No Fuel Left For The Pilgrims” – è sempre stato qualcosa di più vero e autentico. L’ironia ha sempre contraddistinto ogni mossa della formazione, la cui sincerità balza all’occhio e all’orecchio ogni qualvolta la si vede on stage. E quando si parla di sberleffi e saper prendere la vita con leggerezza, a chi non verrebbe in mente “Sleeping My Day Away”? L’opener di “No Fuel…” è LA canzone dei D.A.D., il loro simbolo, vessillo inattaccabile. Passare il giorno a dormire, come se null’altro contasse al mondo, rilassarsi, lasciare scorrere le incombenze dell’esistenza pigramente adagiati sul letto o il divano. Che meraviglia! È il leggendario basso a due corde di Pedersen a introdurre un’aria dolceamara, ammantata delle striature country/western che all’epoca fece etichettare il gruppo come ‘cowpunk’, sfociante nelle prime strofe, cantate con voce asprigna da Jesper Binzer. Nel ritornello, affrontato in maggiore pulizia e rinforzato dai cori degli altri musicisti, ecco spuntare quell’aria vagamente nostalgica permeante i momenti più sentimentali del repertorio dei Nostri. È invece un riff rock’n’roll sbarazzino a mandare in esagitazione sull’altrettanto famosa “Jihad”, che a farla breve è un inno rock disimpegnato e sfacciato alla Ac/Dc, portato su cadenze anomale da quel gran camaleonte di Pedersen. Uno stile tecnicamente nient’affatto ricercato il suo, ma caldo e incisivo come pochi altri. La tracklist scorre via da un potenziale singolo all’altro, in una sequenza di pezzi scatenati e altri dai toni più compassati, non contenente alcun riempitivo né canzoni col pilota automatico inserito. Proseguendo nell’ascolto si scoprono nuove qualità e ‘segreti’ in possesso della band. Le armonie e i crescendo vocali, dove tutti e quattro partecipano e si mettono in luce, rifulgono particolarmente quando i ritmi si allentano, come nel caso di “Point Of View” e “Girl Nation”, episodi intrisi di una malinconia subdola, appena velata. Serpeggia qua e là anche il blues, che dona pastosità al riffing di “Rim Of Hell”, dove si acuiscono le ruvidezze vocali di Jesper, gigioneggiante saltimbanco a suo agio in ogni situazione, anche se pure lui non ha da sfoderare una tecnica sopraffina. Quando si tratta di far smuovere il piede, il risultato è egualmente superbo. In poche note, pattern di pronta assimilazione e attacchi vocali subito coinvolgenti “ZCMI”, “Siamese Twin”, “True Believer” si attaccano addosso e donano una gradevole sensazione di divertimento e benessere. “Lords Of The Atlas” e “Wild Talk” vanno a unire la percezione di placida sconfinatezza del rock sudista alle voglie festaiole degli eighties, dandoci modo di ammirare con calma il solismo di Jacob Binzer, chitarrista mai considerato fra i fuoriclasse dello strumento, nonostante possegga un gusto e una varietà meritevoli di ben altra attenzione. Perché se la musica dei D.A.D. va giù che è un piacere, non si può dire che non sia curata negli arrangiamenti, pieni di dettagli e condensanti una cultura rock decisamente ad ampio raggio. La mazzata della breve “Ill Will”, forse l’unico brano ascrivibile al genere più prettamente ‘metal’ dell’intera produzione dei danesi, pone fine a un’opera imprescindibile nella collezione di chi ami visceralmente il rock’n’roll schietto, sincero e di classe. Perché, ricordatevelo sempre, è quando Disneyland chiude alla sera e le luci si spengono che la festa ha inizio!