7.0
- Band: D.A.D.
- Durata: 00:53:43
- Disponibile dal: 04/10/2024
- Etichetta:
- AFM Records
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Arrivi a un certo punto del percorso, capita di guardarsi indietro e vedere che la strada alle proprie spalle è diventata improvvisamente tanta, lunghissima: il solo misurarla lascia increduli e smarriti, perché mai ci si era immaginati di giungere così lontano: ed eccoci allora, come per magia, a celebrare anche per i D-A-D il traguardo dei quarant’anni di attività.
Un manipolo di ragazzi partiti dalla scena punk di Copenhagen nella prima metà degli anni ’80, quando la stessa capitale danese era lontana dall’essere la città cosmopolita di oggi, seppur a misura d’uomo, ed era assai più lontana, idealmente, dal resto del mondo. Eppure quel posto nel mondo i ragazzi nordici se lo sono presi abbastanza in fretta, arrivando al successo su larga scala con la formidabile accoppiata “No Fuel Left For The Pilgrims”-“Riskin’ It All”. Da qui in avanti la strada non è stata sempre in discesa, la popolarità non è rimasta costantemente a livelli eclatanti, nonostante ciò il quartetto è rimasto a galla, con pubblicazioni di buon livello anche nei momenti meno ispirati – pensiamo soprattutto ad alcune uscite novantiane – per darsi nuovamente slancio con gli anni 2000.
Anche l’ultimo decennio abbondante, tra le celebrazioni dei due dischi più di successo citati qualche riga sopra, tour continui e ben partecipati, un ultimo album, “A Prayer For The Loud” del 2019, tra i migliori della loro discografia, è trascorso sulle ali dell’entusiasmo e del divertimento, mai mancato a musicisti che del cazzeggio impegnato, della malinconia soffice e intensa, della melodia contagiosa messa assieme con poche note, hanno fatto un vanto e un vessillo. Ecco giungere allora l’ultimo tratto – per adesso – di questa lunga storia, con il tredicesimo album “Speed Of Darkness”, il tour del quarantennale alle porte e un’unica data italiana – al Legend di Milano a novembre, stesso luogo e quasi il medesimo periodo dell’ultima calata nel nostro paese.
Fin dai primi ascolti di rodaggio, a conferma di quanto già sentito nei tre singoli rilasciati quali anticipazione, si percepisce che stavolta i toni siano più soft rispetto all’ultimo disco, quando “A Prayer For The Loud” esplodeva addosso con l’eclatante “Burning Star” e non mollava più fino alla fine, tra grandi richiami alla tradizione blues, scoppiettanti anthem in odor di punk vecchia scuola, una produzione potente e sporca il giusto che andava ad esaltare la sfrenata voglia di rock’n’roll della formazione. Un ardimento e una spinta dinamica che era poi anche il tratto caratteristico di tutto ciò che era stato pubblicato da “Scare Yourself” compreso (2005) in avanti, a voler rimarcare l’immortalità del rock’n’roll nella sua dimensione più schietta e selvaggia.
“Speed Of Darkness” pare invece guardare – relativamente – altrove, riprendendo anche a livello di produzione un’idea più pulita e meno assordante di rock, avvicinandosi, volendo fare per forza dei paragoni con altri momenti della discografia dei D-A-D, al periodo di “Soft Dogs”, alcune cose di “Everything Glows”, e i due album solisti del cantante/chitarrista Jesper Binzer. Nulla quindi di inedito, ignoto, mai sentito. Solo, mediamente, più leggero.
Lo stacco con “A Prayer For The Loud” è marcato già da come si apre, “Speed Of Darkness”: “God Prays To Man” si prende i suoi tempi, non va all’attacco, rimane controllata, pimpante ma senza fretta, orecchiabile e sorniona, con il blues a fare bella mostra di sé e un ritmo dondolante tipicamente D-A-D. Un buon pezzo, privo però della sfrontata carica di altre opener del passato. È un ottimo indicatore della tendenza prevalente nel disco, ovvero quella di adagiarsi su canzoni difficilmente incalzanti nelle ritmiche.
Non che abitualmente Laust Sonne si dedichi a stacchi dirompenti, però l’impronta che dà in questa occasione è anche più misurata del solito, non ci sono strappi, c’è una certa rilassatezza – per quanto briosa – a guidare l’azione del gruppo.
Su quattordici canzoni, la maggioranza di queste sono piacevoli, non memorabili, scorrono pacifiche e senza alcun difetto evidente, eppure il grosso non ha il mordente e la profondità dei D-A-D al massimo della forma.
Ci sono alcune lodevoli eccezioni, chiaramente, perché la classe non è affatto evaporata, si scatena solo a intermittenza: “The Ghost” appartiene alla categoria dei brani con una marcia in più, una magia che scocca in pochi secondi; la solista struggente di Jacob Binzer fa da deliziosa apertura, la voce di Jesper si intromette pochi attimi dopo, carezzevole. Tra misurate variazioni chitarristiche e un ritmo indolente arrivano anche flebili voci di sottofondo, accompagnandoci a un ritornello tanto mansueto quanto toccante.
Su questi toni malinconici, ma più grintosa, si comporta bene anche la title-track, rabbiosa nel chorus, più minimale e meditativa nelle strofe, con il cantante/chitarrista a tirare fuori il meglio delle sue doti di smarrito cantastorie del mondo in rovina. Rimanendo sul lato soft della medaglia, all’altezza dei classici appare infine “Crazy Wings”, dove a stagliarsi subito protagonista è il basso a due corde di Pedersen, intrecciato agli arpeggi della chitarra solista.
In fondo la canzone è tutta qua, in un duettare di basso e chitarra che esplode in uno splendido assolo di basso nella seconda metà e la voce che si lancia in tonalità lievemente più acute del solito, per un’interpretazione tra le più sentite del disco.
Il resto, come dicevamo, non è alla stessa altezza, anche se di passaggi a vuoti vistosi non ce ne sono. Perdoniamo volentieri ai nostri danesi preferiti il pubblicare un album ‘solo’ gradevole, dopo tante uscite da urlo del passato. Contenti, in ogni caso, di saperli sempre all’opera, entusiasti, pronti a far esplodere i palchi di tutta Europa a breve.