6.5
- Band: DAATH
- Durata: 00:43:42
- Disponibile dal: 03/05/2024
- Etichetta:
- Metal Blade Records
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Tornano con un nuovo album di inediti, a distanza di ben tredici anni e mezzo dalla precedente fatica discografica, i Dååth di Eyal Levi, chitarrista, fondatore e unico membro originale rimasto del gruppo di Atlanta. Ripartono da dove ci avevano lasciati; da quel death metal melodico ad alto tasso tecnico contenuto nel precedente disco eponimo “Dååth” del 2010, al quale hanno aggiunto ulteriore perizia nell’esecuzione strumentale, nella registrazione, negli arrangiamenti e, in particolare, nelle orchestrazioni, che balzano immediatamente all’orecchio fin dai primi istanti di ascolto.
Ad accompagnare Levi ritroviamo il cantante Sean Zatorsky, già presente sui due precedenti capitoli, e una piccola equipe di virtuosi strumentisti, appositamente scelti per questa nuova avventura, ai quali è stato chiesto non una mera esecuzione di partiture, ma una attiva partecipazione nella composizione delle canzoni. Alla batteria troviamo l’austriaco Kerim Lechner, noto anche come Krimh, batterista dei Septicflesh e già nei Decapitated, alla chitarra solista l’altro austriaco Rafael Trujillo degli Obsidious, lo statunitense Jesse Zuretti dei Binary Code alle orchestrazioni e alla chitarra, e il suo connazionale Dave Marvuglio al basso. Come se non bastasse, su sette dei nove pezzi che compongono l’album vi è la partecipazione di vari chitarristi ospiti che eseguono degli assoli: Dean Lamb degli Archspire, Dan Sugarman dei Fallen Figure, Per Nillson degli Scar Simmetry, Mark Holcomb dei Periphery, Mick Gordon, produttore e creatore di colonne sonore per videogiochi, Spiro Dussias, giovane virtuoso in rampa di lancio e perfino l’ex Nevermore Jeff Loomis. Il tutto sotto l’egida di una casa discografica storica e potente come la Metal Blade, che ha puntato sui Dååth nonostante la lunga pausa artistica.
Non c’è che dire, la presentazione dell’opera è magniloquente: un lavoro pensato, studiato e finemente preparato in un ampio lasso di tempo; ed è senz’altro di livello il suono costruito da questo manipolo di professionisti del metal estremo, come è interessante sentire come dal precedente disco del 2010 si sia arrivati a questo affinamento tecnico della proposta, andando a cogliere tutte le varie innovazioni che sono state compiute; un altro passo nel percorso artistico dei Dååth, che nell’industrial thrash-death degli esordi hanno via via aggiunto inserti di death metal melodico, arrivando infine a questa sorta di death metal orchestrale.
Il lungo iato di tredici anni non è stata una decisione del leader Eyal Levi, quanto più una conseguenza del suo lavoro di produttore per gruppi quali The Black Dahlia Murder, The Contortionist, Battlecross e altri ancora, e di fondatore della scuola di produzione Unstoppable Recording Machine” e della sua gemella Riffhard, dove si insegna invece la chitarra metal. Secondo quanto riportato da Levi, l’interesse ancora vivo verso il gruppo e la sua passione mai sopita hanno spinto verso il ritorno dei Dååth; i tempi morti della pandemia hanno fatto il resto, portando infine alla realizzazione di questo nuovo tassello nella discografia del gruppo della Georgia.
Il riffing di impostazione thrash-death anni Novanta è ancora in piccola parte presente, e può rimandare ai Grip Inc o agli Strapping Young Lad; ritroviamo poi la componente legata al death-thrash melodico svedese, in particolare ai Darkane, mentre la caratura degli arrangiamenti può ricordare qualcosa degli ultimi Death, dei Morbid Angel “di mezzo” o dei Necrophagist, e, per via delle orchestrazioni, degli Emperor di “IX Equilibrium” e “Prometheus” o degli ultimi Behemoth o Dimmu Borgir; tuttavia, le composizioni in generale non si discostano poi molto da quelle dell’ultimo disco, come già accennato, e, pur risultando godibili, danno a volte la sensazione di non andare da nessuna parte, non solo dal punto di vista musicale, ma anche concettuale, considerando che le tematiche cabalistiche potrebbero essere trattate in maniera un po’ più convincente. I vari influssi conferiscono al lavoro una certa ecletticità ed è innegabile la padronanza con cui i Dååth trattano sia le parti furiose che quelle più atmosferiche, ma manca un po’ di personalità, una cifra stilistica, un marchio di fabbrica capace di non far sembrare tutto un collage ben costruito, ma nell’insieme anonimo. Le fitte trame armoniche e solistiche tessute dal sestetto da un lato stupiscono per la complessità, ma dall’altro creano un sovraccarico che rende meno fluido l’ascolto e affatica l’orecchio; a mancare, in fin dei conti, è un’autorevolezza nello scrivere canzoni almeno pari a quella dimostrata nell’affrontare gli strumenti, ed è perciò che non si può considerare questo “The Deceivers” un lavoro pienamente riuscito.
Eyal Levi a lungo andare ha optato per una normalizzazione del proprio suono, concentrandosi principalmente sulla ricerca di una perfezione soprattutto formale della proposta, foss’anche per semplice deformazione professionale, considerando la sua carriera nel campo del music business; ma un po’ dell’incoscienza e della spavalderia della gioventù avrebbero potuto giovare al risultato finale, donando maggior sostanza a questo ritorno.