7.5
- Band: DACAST
- Durata: 00:35:22
- Disponibile dal: 04/02/2012
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Sbucati dal nulla, come la peste. Come un cane infestato dalla rabbia che spunta all’improvviso da un vicolo in un turbine infernale di zanne, artigli, bava e follia puntando dritto alla vostra giugulare. Quel secondo un cui il terrore prende possesso di voi e l’unica cosa che lo rivaleggia è il disgusto. Ecco il sunto di “Dédale”, presumibilmente la prima opera mai licenziata dalla sconosciuta e misteriosa band math-core parigina Dacast. La loro etichetta discografica è null’altro che la loro pagina Bandcamp, le loro identità sconosciute, la loro storia anche. Non si sa nulla di loro se non quello che suonano, ed è questo ciò che conta perché in un mondo in cui le “scene”, le label, i generi, eccetera contano sempre più della musica e della band stessa, è davvero una boccata d’aria fresca farsi letteralmente massacrare le sinapsi da una band in cui parla solo ed esclusivamente una cosa sola: la musica. “Dédale” è davvero un’opera strana e particolare. Ha un fascino sinistro e “scomodo”. Il disco si presenta subito con una formula stilistica che appare cinica, paracula e affatto accomodante. Si parte innanzitutto dal format, inusuale per il genere: due tracce lunghe quindici minuti la prima e oltre venti la seconda, scelta formale che fa trapelare prevalentemente due cose: la prima è che i Dacast se ne fottono di ciò che pensate o volete. Vi hanno tolto il tasto “skip”, per cui il disco non lo si fruisce a piacimento, ma lo si subisce come vogliono loro. Pongono regole ben precise, o si fa a modo loro o non se ne fa nulla, e questo è solo un grande esempio di coraggio e integrità artistica. Il secondo aspetto che in un certo senso il format veicola è quello della sperimentazione: scopriremo infatti che vi era effettivamente bisogno di una forma canzone più dilatata e di un impianto strutturale più accomodante che permettesse la presenza e convivenza di generi e mood opposti per permetterne l’amalgamazione in maniera ottimale. Parliamo dunque di math-core, non ci piove, ma di quello più atmosferico e cerebrale, avanguardistico dunque, completamente destrutturato e volto al futuro. Fatte le dovute presentazioni tra i vostri poveri padiglioni auricolari per questa calamità sonora di album, passiamo alla sua quanto mai ardua descrizione. Il tridente di attacco che sfruttano i Dacast è di quelli che non lasciano scampo. Da “Jane Doe” dei Converge, “Calculating Infinity” dei Dillinger Escape Plan e “We Are The Romans” dei Botch, i Nostri hanno ripreso quasi tutto, soprattutto la brutalità cieca e abietta del primo, la complessità post-industriale del secondo e il non-senso surreale del terzo. Ma “Dédale” è di più, molto di più che un semplice riciclaggio: nelle due lunghe tracce che lo compongono i Botch, i Converge e i Dillinger Escape Plan sono costretti a convivere con i Locust, con i Ruins, i Naked City, i Meshuggah, i Pig Destroyer, i Fantomas, gli Eyehategod, Merzbow, i Bastard Noise e perfino con i Painkiller. Surreali e comatosi rallentamenti simil-sludge vengono iniettati con una dose di propellente tech-grind dilaniante e sanguinante. Pazzie noise-improvvisazionali impestate di jazz e industrial dilaniano il lavoro senza sosta dall’inizio alla fine creando uno scempio-fusione di generi che a tratti lascia basiti per la perizia e caparbietà con la quale si materializza, mentre in altri momenti ammutolisce per la violenza e potenza con sui sgorga incontrollata. Una immaturità e una derivatività di fondo in “Dédale” (ancora, giustamente e comprensibilmente) si nota, ma l’intraprendenza dei Dacast mostrata in questo debutto è sbalorditiva, e questi ragazzi sono solo al primo vagito, senza label, senza documenti e senza identità ma fanno mangiare la polvere al novantanove percento delle realtà affermate che ci sono in giro. Prendere nota, assolutamente.