7.5
- Band: DAKHMA
- Durata: 00:51:35
- Disponibile dal: 17/12/2021
- Etichetta:
- Eisenwald Tonschmiede
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“Con ‘Blessings of Amurdad’ (Amurdad traducibile in ‘immortalità’ in medio persiano, anche noto come lingua Pahlavi, ndR), i DAKHMA conducono gli ascoltatori in una terra lontana e straniera e osano compiere un viaggio in un tempo lontano, quando mistici del deserto e nobili imperi erano ancora presenti con orgoglio nell’antica Persia. Tematicamente, ‘Blessings of Amurdad’ esplora la complessa relazione tra mortalità e immortalità nella tradizione zoroastriana, basandosi principalmente su passaggi chiave dell’antico testo dei Gatha”.
È iridescente l’idea dei Dakhma, progetto nata a Zurigo nel 2014 dall’incontro tra il polistrumentista e cantante Karapan Darvish (già in Arkhaaik, Lykhaeon, Solitudo Solemnis) e il batterista Ahu Spozgar, ambizioso duo attratto tanto dalle forme extreme metal underground contemporanee quanto da certe arcane atmosfere mediorientali. Dopo una serie di demo e split, al quale si è aggiunto il debut album “Hamkar Atonement” tre anni fa, il gruppo torna con un secondo full-length che si sviluppa su intriganti intrecci eretti da una verve death-black e da interventi di strumenti tradizionali, per una miscela dai numerosi risvolti sonori. Un album da ascoltare mentre ci si trova magari in posizione orizzontale, immaginando deserti, piste carovaniere, città-fortezze, templi e antichi culti. Un calderone musicale che può ricordare l’operato di Necros Christos, Irkallian Oracle, Teitanblood (del più ‘ripulito’ “The Baneful Choir”), Grave Miasma e Sonne Adam, magari non personalissimo, ma certo strutturato con perizia e giudizio. La tracklist di “Blessings of Amurdad” si dischiude gradualmente, pretendendo attenti ascolti, ma senza scadere nella trappola dell’astrusità gratuita. Una produzione equilibrata e l’immediatezza di alcuni riff e passaggi in midtempo forniscono subito dei confortanti appigli all’ascoltatore, invitandolo a ulteriori fruizioni e all’analisi più approfondita di brani dall’incedere segmentato, spesso in bilico tra vecchia scuola death-black e più magniloquenti ambizioni narrative. Un globo sonoro diviso in due emisferi che si specchiano e si riconoscono reciprocamente nelle differenze: possente, a tratti cavernosa, ma tutto sommato lineare la parte metal, girovaga e variopinta quella etnica, pur senza mai degenerare in trame troppo ampollose da bazar. Apprezzabile anche la modulazione delle voci, con strofe che alternano o sovrappongono vari tipi di cantato in growl e dei cori declamatori che ben sottolineano i passaggi più trionfali. Una marcia che sembra affiorare da plumbee lontananze e che incalza poi fiera e metodica, sull’onda di un lavoro di chitarra concreto e ben sorretto da una resa sonora che, come già accennato, ha evitato certe esagerazioni underground, mantenendosi chiara e potente. A conti fatti, quella dei Dakhma è un’idea che si colloca perfettamente nella linea tracciata dalle realtà citate qualche riga più su, massimi esponenti di un modo di intendere il metal estremo sempre più impegnato a scoprire e valorizzare certi esperimenti di contaminazione senza tuttavia mai rinunciare a un afflato realmente ostile e sinistro. Fra antica tradizione e contemporaneità, “Blessings of Amurdad” è un’altra piacevole scoperta di questo 2021 ormai agli sgoccioli.