5.0
- Band: DARK ANGEL
- Durata: 00:49:22
- Disponibile dal: 05/09/2025
- Etichetta:
- Reversed Records
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Ci sono opere che nascono circondate da un’aura di attesa inevitabile, e non potrebbe essere altrimenti quando si parla del ritorno discografico dei Dark Angel dopo trent’anni abbondanti di silenzio. Giustamente, il nome della band di Gene Hoglan evoca ancora oggi i fasti di “Darkness Descends”, “Leave Scars” e soprattutto “Time Does Not Heal”, album che hanno contribuito a scolpire nella pietra il thrash tecnico e muscolare degli anni Ottanta e primi Novanta. Eppure, se il passato non si discute, il presente assume contorni molto più incerti, se non addirittura tragicomici. “Extinction Level Event” avrebbe potuto essere la dimostrazione che una formazione storica può ancora dire la sua, magari con i limiti naturali del tempo, ma con la capacità di incanalare esperienza e carisma in un’opera significativa. Invece, ci troviamo davanti a un lavoro che fatica a reggersi, non solo per i difetti intrinseci della musica, ma soprattutto per tutta una serie di scelte maldestre che ne condizionano irrimediabilmente la ricezione.
Già i mesi che hanno preceduto la pubblicazione del disco avevano lasciato più di un campanello d’allarme: i due singoli scelti come apripista – la title-track e “Circular Firing Squad” – avevano mostrato una resa confusa, ‘moderna’ nelle intenzioni, ma penalizzata da un mixaggio scoordinato, con la batteria a sovrastare spesso chitarre e voce. L’effetto è quello di un suono sbilanciato, incapace di restituire il classico equilibrio del thrash, dove velocità, riff e impatto devono dialogare. A peggiorare la situazione, la prestazione vocale di Ron Rinehart: anziché restare sul solco tracciato negli ultimi due album della band, magari limando dove l’età non permette più certe acrobazie, il cantante ha adottato un registro più brusco, quasi hardcore, poco naturale e spesso strozzato, qua e là affiancato da cori e backing vocals ancora più discutibili, che appesantiscono ulteriormente la resa complessiva.
Decisione, a quanto dichiarato, incoraggiata da Hoglan stesso, ma che finisce per accentuare l’impressione di una band confusa. Il paradosso è che dal vivo Rinehart riesce ancora a convincere: la differenza fra palco e studio risulta quindi inspiegabile e, di nuovo, maldestra.
A rafforzare la sensazione di un progetto poco centrato concorre anche la già ampiamente discussa veste grafica: la copertina, realizzata evidentemente con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, non solo tradisce una certa ingenuità estetica, ma si rifugia in cliché visivi parecchio dozzinali, lontani dalle iconografie disturbanti che avevano reso immediatamente riconoscibili i Dark Angel. Non aiuta poi la gestione dell’uscita: la band ha scelto di autoprodursi sotto l’etichetta Reversed Records, realtà improvvisata che almeno per adesso non garantisce distribuzione fisica se non attraverso il proprio mailorder e che ha persino mancato la pubblicazione digitale nel giorno ufficiale di uscita. Un autogol comunicativo e organizzativo che ha lasciato molti fan interdetti e ha minato ulteriormente la percezione complessiva dell’album.
Tuttavia, il cuore della questione resta ovviamente la musica: Hoglan ha dichiarato in più interviste di aver preferito non riprendere il materiale composto nel 1992, poco dopo “Time Does Not Heal”, per costruire un album completamente nuovo negli ultimi tempi. Una decisione legittima, ma che suona sorprendente: quelle vecchie idee, rimaste negli archivi, avrebbero potuto dare vita a un lavoro “alla ‘Surgical Steel’”, come accadde per i Carcass, i quali seppero rinnovarsi e tornare con un’opera centrata e convincente partendo da spunti d’epoca. Qui invece ci troviamo con brani concepiti ex novo, a quanto pare integrati solo da qualche riff lasciato in eredità dal compianto Jim Durkin. Il risultato, purtroppo, è un thrash metal generico, che a tratti riesce a imboccare la strada giusta con un riff ficcante o un’accelerazione ben piazzata, ma che per la maggior parte del tempo procede su binari dozzinali, a volte arenandosi del tutto in midtempo terribili, tra un groove che non va da nessuna parte e cori stucchevoli (“Sea of Heads”, “Terror Construct”, “E Pluribus Nemo”).
I Dark Angel sono sempre stati una band di riff, di architetture chitarristiche in grado di fondere violenza e complessità, di trasformare il thrash in un muro sonoro sì tetro e possente, ma anche ricco di micro-sfumature. In “Extinction Level Event” questo marchio di fabbrica sembra pressoché sparito: ci troviamo di fronte a un suono generico, standardizzato, che potrebbe essere firmato da qualunque band di seconda fascia della scena internazionale.
Le chitarre raramente si avventurano oltre soluzioni convenzionali: il fraseggio non sorprende, gli intrecci tra ritmica e solista sono ridotti al minimo, i brani scorrono senza quella capacità di catturare e di trascinare che i Dark Angel avevano reso tipica. Banali, appunto, soprattutto i midtempo, che in tanti vecchi episodi sapevano caricarsi di tensione e potenza, ma che qui suonano fiacchi, come riempitivi messi per spezzare una velocità che però non arriva quasi mai a pungere davvero.
Tutto sommato, alcuni passaggi portano ancora con sé quell’impronta tagliente che rese i californiani inconfondibili, e la conclusiva “Extraction Tactics” prova a restituire energia e spontaneità, dando un assaggio di ciò che l’album avrebbe potuto essere. Ma sono episodi isolati, lampi che si spengono subito, incapaci di reggere da soli un disco intero.
Il paradosso è che, se anche ci fosse stata un’autocitazione o un richiamo diretto al repertorio storico, l’avremmo accolto come un gesto di consapevolezza, persino con indulgenza. Sentire oggi un riff che ricordasse “Leave Scars” o un fraseggio tecnico nello stile di “Time Does Not Heal” sarebbe stato un ponte tra passato e presente, una sorta di dichiarazione d’amore a Durkin o alla propria storia. Invece Hoglan e compagni hanno scelto di evitare il gioco dei rimandi: l’intenzione era forse quella di non vivere di nostalgia, di optare per pezzi più compatti e diretti, ma il risultato è un grigiore indistinto, dove l’assenza di personalità pesa più dell’eventuale “tributo a se stessi”.
È difficile non pensare che questa scrittura così generica derivi da una sorta di isolamento creativo. I Dark Angel sembrano vivere in una bolla: Hoglan ha passato anni a suonare con band di alto profilo, ma qui non emerge granché di quell’esperienza, come se tutto fosse rimasto sospeso in un tempo che non dialoga né con il presente né con il loro stesso passato. Il confronto con i colleghi è impietoso: senza andare a tirare fuori giovani rampanti che animano il sottobosco underground (vorrebbe dire infierire inutilmente), basta ascoltare i Testament, band per anni molto vicina al batterista, per notare come altri coetanei riescano a lavorare sul suono, sull’efficacia dei riff e sulla precisione della resa (anche a partire dall’artwork di copertina) con tutt’altro profitto.
Alla fine, ciò che resta è la sensazione che “Extinction Level Event” sia il frutto di una band che porta ancora un nome glorioso, ma che nella sostanza – almeno in studio – ha ben poco a che fare con i Dark Angel che hanno fatto la storia. Hoglan rimane un batterista ineccepibile, ma non basta la sua presenza per salvare un album che appare maldestro in quasi ogni dettaglio: dalla produzione alla voce, dalla copertina alla distribuzione.
Non si tratta di pretendere che i Dark Angel suonino come nel 1989. Si tratta di capire come mai abbiano pensato che un lavoro simile potesse essere accettabile. E qui ritorna lo slogan più amaro ma forse più calzante: non fare dischi se non ascolti – o compri – dischi. Perché solo chi resta in contatto con la propria storia e al contempo con la propria scena di riferimento può ancora produrre qualcosa di rilevante. “Extinction Level Event” purtroppo non lo è: più che un ritorno, sembra un’estinzione.
