8.5
- Band: DARK QUARTERER
- Durata: 00:56:23
- Disponibile dal: 24/04/2015
- Etichetta:
- Metal On Metal
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Chi scrive si rammarica di arrivare lungo rispetto all’annata solare appena conclusa nel parlarvi di “Ithaca” dei Dark Quarterer, vecchio oramai di oltre otto mesi e purtroppo rimasto lontano dai nostri radar fino ad ora. Pur con la parziale attenuante dell’elevatissimo numero di uscite da passare in rassegna, siamo dispiaciuti di non aver evidenziato a tempo debito l’ennesimo album di livello sopraffino del gruppo di Gianni Nepi, una compagine che si è soliti ascrivere alla pregiata, e fastidiosa, categoria delle cult band, definizione implicante un bacino d’utenza limitato, per quanto fedele ed appassionato. Il quartetto toscano vive una situazione paradossale, essendo etichettato col marchio dell’assoluta eccellenza dal punto di vista della critica musicale, ma lo si ritiene poi un po’ ostico per una fruizione su larga scala. Ciò in considerazione dei marcati accenti progressive e di una scrittura onnicomprensiva di tutte le delizie che il rock di classe è stato in grado di offrirci dagli anni ’70 ad oggi, secondo una fusione di stili pressoché unica nel panorama heavy metal internazionale. Per chi, magari, è sempre rimasto lontano dalla band in passato per paura di una complessità parsa a molti, teoricamente, insormontabile, “Ithaca” potrebbe essere una scoperta clamorosa. Perché a sette anni da “Symbols”, ultimo disco di inediti prima dell’LP celebrativo del 2012 dove si andavano a ri-registrare i brani dell’esordio eponimo, i Dark Quarterer hanno pubblicato un’opera monumentale, giustificante tale epiteto prima di tutto nelle caratteristiche somatiche del suono. Grosso, limpido, impetuoso, il sound prescelto e confezionato in studio di registrazione è maledettamente heavy, coniugante alla perfezione la classicità di una formazione trasudante storia (nel 2015 ha compiuto i trentacinque anni di carriera, il nucleo iniziale era però già attivo sotto diversa denominazione dal 1972) ma intelligente nell’aggiornarsi e nel ringiovanirsi mantenendo intatta la propria identità, arricchendola di una potenza di fuoco confacente all’epoca che stiamo vivendo e calzante al poderoso concept, ispirato all’omonimo poema dell’autore greco Konstantinos Kavafis, incentrato sull’idea di viaggio quale metafora della vita, dove il percorso per giungere a un certo traguardo è più importante e significativo dell’obiettivo stesso a cui tendono i nostri sforzi. La variabilità delle situazioni, i picchi e gli sprofondi di un’esistenza, il progredire e regredire secondo un errare per nulla lineare né programmabile nei minimi dettagli, sono di conseguenza l’unico filo conduttore possibile di un disco costruito come una metal opera, dove talune lungaggini di stampo sinfonico-progressive riscontrate altrove qui non hanno alcuna cittadinanza. L’elegante epos di “The Path Of Life”, mescolante Candlemass, Warlord e Fates Warning, si contorna di effusioni soliste imprevedibili di sei corde e tastiere, con queste ultime a incresparsi di inedita aggressività. In “Night Song” emerge la dolcezza di fondo del progressive, la solista ricama in primo piano mentre i cori ascendono nell’alto dei cieli, convolando a nozze con le keyboard in barocchismi stupefacenti. “Mind Torture” incarna l’epic metal dei Manilla Road declinato in una forma più levigata, articolandosi in sezioni colme di mistero, che si snodano dal nucleo principale costituendo a loro volta coinvolgenti sottocapitoli di una storia maestosa, interpretata con un’energia incontenibile. Impossibile non rimanere basiti, genuinamente meravigliati, da un brano come “Escape”, che si apre con una vorticosa fuga di chitarre e tastiere memore dei Rainbow di “Rising”, per poi ricompattarsi in un racconto tumultuoso in cui Nepi, giocando a menestrello e crepuscolare cantore, conduce le danze con maestria e partecipazione emotiva unica: la traccia non assume mai contorni definiti, balzella fra chitarre durissime, quasi thrash nei momenti più duri, rapidissimi incastri di tastiera e batteria e uno spirito veramente progressivo, di ricerca febbrile del preziosismo, purché sia funzionale al pezzo e non ridondante. Forti di una poliedricità sconfinata, i Dark Quarterer possono essere magicamente commoventi ed è ciò che accade in “Nostalgia”, fedele al titolo e introdotta da arpeggi toccanti e retta da un pianoforte grondante tristezza. Colpisce al cuore la vastità di pensiero ed esecuzione del gruppo, il suo bagaglio di idee e la facilità con cui le esprime, facendo percepire sentimenti semplici quali, appunto, nostalgia e struggimento, tramite un’articolazione di tempi, arrangiamenti, pause e intersezioni strumentali magniloquente. Forse solo i Savatage degli anni ’90 o i migliori Virgin Steele arrivavano a tanto, mentre non abbiamo termini di confronto per quanto accade in seguito, quando siamo completamente spiazzati dalla fusione di gospel (avete letto bene…), Therion, musical e power metal di “Rage Of Gods”, nella quale Nepi si lancia in vocalizzi ricalcanti quelli di una star del soul, per poi solleticare i toni bassi e manipolare il falsetto con pari efficacia. Tutt’intorno, cori e tastiere ecclesiastiche spingono alla catarsi, lasciando campo libero allo shredding nella seconda metà, quando di nuovo i Rainbow arrivano a manifestarsi nel variopinto universo dei Dark Quarterer, invocando perfino i maestri del metal cristiano Saviour Machine. “Last Fight” è una chiusura formidabilmente vintage senza suonare polverosa: andiamo a rinfrescarci le orecchie con spunti blues d’autore intarsiati nelle sofisticate fiumane ritmiche, fluide nonostante la sequela di cambi di tempo offerti anche in questa traccia. “Ithaca” non rappresenta solamente un nuovo esaltante traguardo discografico per questi sempreverdi musicisti, assomma un crogiolo di suggestioni metalliche rilevabili con molta difficoltà in altri contesti, anche presso band di maggiore popolarità e blasone internazionale. Se come noi vi siete accorti tardi di questo monumento sonoro, non fate l’errore di attendere oltre nell’ascoltarlo: non rimarrete delusi.