10.0
- Band: DARK TRANQUILLITY
- Durata: 00:47:51
- Disponibile dal: 27/11/1995
- Etichetta:
- Osmose Productions
- Distributore: Audioglobe
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A pochi giorni di distanza dall’attesa calata italica per il Metalitalia.com Festival 2016 e, ancor più, a circa un mese e mezzo dalla release date del nuovo album “Atoma”, dedichiamo questo spazio agostano de I Bellissimi al disco che ha sdoganato i Dark Tranquillity dall’underground più cupo e sotterraneo, dando il la ad una carriera e ad un processo evolutivo che, al netto di cali fisiologici, cambi di line-up e piccoli ripensamenti, tuttora proseguono limpidi e solenni. “The Gallery”, uscito sul finire del 1995, ormai più di venti anni fa (!!), è altresì uno dei capostipiti principali e più di successo – assieme a “The Jester Race” degli In Flames e a “Slaughter Of The Soul” degli At The Gates – della corrente melodico-goteborghiana del death metal svedese anni ’90, quello sudicio, innovativo e primevo, insomma. Non ci pare di esagerare scrivendo anche che tale lavoro, pur affiancandolo a svariati altri platter epocali di quel death-decennio formidabile, meriti sicuramente un posto di alto, altissimo rilievo in qualsiasi discografia estrema di un metallaro che si rispetti. Ma veniamo ordunque al sodo. La band, all’epoca, è reduce dal relativo buon esito ottenuto dal debutto “Skydancer” e dalla pubblicazione dell’EP-di-mezzo “Of Chaos And Eternal Night”, con il quale ha presentato la nuova formazione, con il passaggio del chitarrista Mikael Stanne alla voce – in sostituzione del deboluccio Anders Fridén, passato nel frattempo agli In Flames – e l’ingresso della fondamentale sei-corde di Fredrik Johansson, oggi uno degli ex membri dei Dark Tranquillity più rimpianti, almeno dai fan della vecchia ora. Martin Henriksson al basso e alla chitarra acustica, Niklas Sundin all’altra chitarra elettrica e Anders Jivarp quale impavido propulsore dietro le pelli completano il quadro di una lancinante ed assassina macchina macina-riff e cambi di tempo. Passati dalla Spinefarm alla francese Osmose Productions, all’epoca attivissima e all’avanguardia, e confermata l’accoppiata tecnica Fredman Studios/Fredrik Nordstrom, gli svedesi mantengono intatte le caratteristiche di punta del loro suono, smussandone le asperità e le farraginosità ancora presenti su “Skydancer”, invero un lavoro ispirato ma un pelo acerbo, rilanciando in cambio al destinatario un parossismo esecutivo ed imprevedibile non più ripetuto in futuro, innervato da connotazioni altamente decadenti e a tratti poetiche, creando così un maelstrom sonoro di difficile recepimento in prima battuta, ma grandemente soddisfacente una volta arrivati a comprendere l’universo compositivo del gruppo, quantomai pregno di sovrastrutture, arrangiamenti deliziosi e strumenti che si muovono individualmente quasi per ogni secondo di “The Gallery”; tant’è che, a risentirlo oggigiorno, ancora si riescono a trovare nuovi passaggi, linee di basso e riff ‘nascosti’ mai scovati prima. Henriksson, Johansson e Sundin, con il parziale aiuto di Jivarp, si dimostrano songwriter superbi, funzionalissimi alla causa, in grado di comporre mini-sinfonie tragiche e drammatiche (“The Dividing Line”, “Edenspring”, “The Emptiness From Which I Fed”), oppure dolci e strazianti (“Lethe”, la title track, “Mine Is The Grandeur…”, “…Of Melancholy Burning”), oppure ancora, quando proprio non si raggiunge l’eccellenza artistica, ecco brani come “Midway Through Infinity”, “The One Brooding Warning” e la sottovalutata ma splendida “Silence, And The Firmament Withdrew” ad affrescarci la mente con una magniloquenza ed una violenza compulsiva deragliante. Abbiamo lasciato fuori dai conti – l’avrete notato – il brano d’apertura, nonché IL pezzo immancabile da un concerto-come-si-deve dei Dark Tranquillity, checché ne dicano i fan acquisiti in tempi non sospetti con il successo di dischi come “Damage Done” e “Fiction”: “Punish My Heaven”, signori. Una vera opera d’arte estrema, al tempo stesso sanguinante e lacrimevole, un’esplosione di livore lirico e musicale che continua ad avere pochi uguali: l’incipit inconfondibile di Jivarp alla batteria, i riff imprendibili e le ripartenze di Johansson e Sundin speditici verso i timpani a curvatura warp, il basso indipendente di Henriksson che ricama e svolazza in ogni dove, ed infine le urla sguaiate e ruggenti di uno Stanne protagonista assoluto, degno declamatore di lyrics ormai perdute nella maturità del crescere e diventare più riflessivi e profondi: lyrics, scritte a quattro mani da Mikael e da Niklas, al tempo spazianti verso il cosmo aperto, il Vuoto e il Nulla, i loro misteri insondati e i reconditi miti che li circondano. Un lavoro, “The Gallery”, graziato oltretutto da una copertina splendida targata Kristian Wahlin, che ne definisce ulteriormente le peculiarità artistiche e singolari: un album che meriterebbe di essere esposto e suonato nei più rinomati musei del mondo, a monito imperituro, come monolite definitivo d’arte estrema. Dieci secco.