6.5
- Band: DARKTHRONE
- Durata: 00:40:00
- Disponibile dal: 28/10/2022
- Etichetta:
- Peaceville
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È quasi doloroso scrivere queste righe, ma sarebbe altrettanto difficile incensare con onestà intellettuale “Astral Fortress”, al di là del culto personale di chi scrive per i Darkthrone.
Questa volta ci viene proprio da chiederci se Fenriz e Nocturno Culto non abbiano avuta troppa fretta nel proporre nuovo materiale, se stiano iniziando – come molti detrattori, a ben vedere, sostengono da tempo – a parlarsi addosso, o se semplicemente, invece di celebrare al meglio la loro ventesima uscita discografica, abbiano voluto giocare un pessimo scherzo in linea con il loro approccio verso il pubblico, pubblicando quello che a nostro parere è il lavoro più debole della loro discografia dai tempi di “Goatlord”. Il già noto singolo “Caravan Of Broken Ghosts” apre il disco senza lode né infamia; le sonorità e le dinamiche ricordano diversi loro pezzi recenti (in primis “The Hardship Of The Scots”), con l’unico difetto evidente di essere, appunto, uno standard già sentito. Purtroppo, a seguire, abbiamo un’infilata di altri tre brani costruiti esattamente allo stesso modo, e con gli stessi limiti: prolissità, produzione discutibile alle soglie del demo – e non, purtroppo, alla ricerca di un suono sporco e marcio, ma con una produzione scarna e povera, linee vocali ripetitive che affossano l’unicità di Ted dietro il microfono, una quasi assenza di dinamiche. Nel complesso di questi primi ventinove minuti di durata si segnalano infatti gli inserti di organo/mellotron su “Stalagmite Necklace” e “The Sea Beneath The Seas Of The Sea”, a ben vedere un po’ ‘appiccicati sopra’ alla buona e, nel secondo brano citato, un’accelerazione, un inserto vocale di Fenriz e un fill di batteria un po’ zoppicante: pochino per dieci minuti di canzone che sembra imitare la strepitosa “Lost Arcane City Of Uppakra” in chiusura del disco precedente… senza riuscirci, ahinoi.
La sufficienza viene raggiunta nella seconda parte del disco, per fortuna; “Kevorkian Times” resta nel noto solco doom-a-modo-nostro, ma tra il riff esaltante, il tempo dispari e incalzante e un bel suono sporco da thrash/black anni Ottanta ci fa recuperare, infine, della speranza. Dopo un intermezzo strumentale che è poco più di una boutade quasi rumoristica, arriva il buon finale di “Eon 2”: ovviamente il riferimento è al brano che chiudeva il loro primo album, e con il loro solito genio strafottente e sarcastico i Darkthrone stravolgono il riff portante di quella canzone per regalarci cinque minuti nostalgici, evocativi, eppure concreti e trascinanti come la cavalcata in terzine che chiude questa traccia e il disco. Tutto questo mantenendo la struttura da midtempo presente sul resto dell’album e portandoci a esplicitare una domanda sottesa dall’inizio: era così difficile fare di meglio nei primi brani? È stata pigrizia o strafottenza a spingere due profeti del metal a spezzarci, in parte, il cuore?
Ai posteri l’ardua sentenza. Noi archiviamo questo disco come un netto passo falso, per il quale anche un sei e mezzo contiene forse un eccesso di affetto, in attesa di tempi migliori. Tanto, se non sceglieranno di scioccarci ulteriormente sparendo dalle scene, non ci vorrà molto prima di un loro nuovo album.