8.0
- Band: DARKTHRONE
- Durata: 00:38:07
- Disponibile dal: 31/05/2019
- Etichetta:
- Peaceville
- Distributore: Audioglobe
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Fenriz e Nocturno Culto tornano sempre fedeli a se stessi, eppure ancora una volta in grado di mettere sul piatto una nostalgica freschezza che – concedetelo al nostro lato da fan devoti – quasi nessun altro sa minimamente sfiorare. “Old Star” è un titolo programmatico come d’abitudine, che scopriamo in fretta rifarsi alla filiera “Circle The Wagons” – “The Underground Resistance”: come gli argonauti del Signore degli Anelli, i due norvegesi sono diventati i baluardi del metal classico, con un’attenzione tale agli arrangiamenti e un amore così sincero da aprire più strade al futuro di tanti gruppi smaccatamente sperimentali. Da qualche album Fenriz ha smesso di infarcire di riferimenti musicali le note di ciascun brano, ma non servono bigini per scoprire un microcosmo musicale che rifiorisce e si arricchisce in ogni brano. Le costanti: una produzione molto scarna che assume però calore nelle accordature ribassate, il cantato lo-fi e lontanissimo, che accentua l’effetto fuori-dal-tempo e liriche ricche da interpretare. L’apertura dell’album è francamente esaltante, con le serrate ritmiche di “I Muffle Your Inner Choir”: speed metal nell’ormai consolidata versione di Fenriz, ossia l’intersezione tra thrash primordiale e immediatezza punk. Perché i Darkthrone non hanno forse mai citato con particolare fervore l’amore per Lemmy, preferendo sempre ripescare oscuri eroi dell’underground come riferimenti, ma i Motörhead (o i Discharge, se preferite), vivono e risorgono, tra i loro solchi. “The Hardship Of The Scots” getta sul tavolo subito il poker d’assi, tra rallentamenti doom – a ben vedere già evocati nel finale del primo brano – un’oscurità british che passa parimenti da Judas Priest e Witchfynde, racchiuso tra movenze tardo settantiane in apertura e l’evocatività citazionistica del tremolo riffing sul finale. “Old Star” è stata probabilmente scelta come singolo per lasciare la massima sorpresa nell’ascolto complessivo, dato che si conferma un bel midtempo vicino alle sonorità epic metal di Cirith Ungol & co. già presenti su “Arctic Thunder”, chiaramente in salsa Darkthrone. “Alp Man” sposta l’asticella verso l’eterno amore Manila Road, anche se il rauco cantato di Nocturno Culto (nemmeno in questo album abbiamo modo di risentire Fenriz al microfono, per inciso) riesce sempre a donare un tocco estremamente personale al tuffo nel passato. “Duke Of Gloat” riporta sugli scudi la frenesia in quattro quarti ed è probabilmente l’unico brano dove la band che ha sdoganato il black metal con la prima uscita ufficiale del genere strizza l’occhio al suo più antico passato, con un finale sincopato che pare dare ragione all’unico omaggio esplicito presente sull’inner sleeve (J.D. Kimball e i suoi seminali Omen). Si chiudono le danze con “The Key Is Inside The Wall”, doom metal con le giuste accelerazioni che evoca parimenti i morbosi racconti di Lovecraft e paesaggi ossianici e sospesi. Forse un’analisi track-by-track come questa risulta persino troppo didascalica per un lavoro ricco, che mostra nuove, caleidoscopiche sfaccettature a ogni ascolto, ma può ben rendere l’idea dell’enciclopedico e affettuoso compendio di quarant’anni di passione a nome metal che appunto solo i Darkthrone sanno mettere in campo senza puzzare mai di naftalina. Non avevamo dubbi, ma bentornati.