9.0
- Band: DARKTHRONE
- Durata: 00:39:04
- Disponibile dal: 17/02/1994
- Etichetta:
- Peaceville
- Distributore: Self
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Se si dovesse compilare una storia del black metal, è indubbio che la scelta di questo album dei Darkthrone sarebbe quasi inseparabile dai due precedenti “A Blaze In The Northern Sky” e “Under A Funeral Moon”. La cosiddetta Unholy Trinity, infatti, rappresenta per certi versi un vero unicum a tre facce, la cui influenza sul genere è assoluta, totale. Il primo album citato è fondamentale per mille motivi: il primato di pubblicazione, la nascita di una certa estetica, la capacità di spostare l’asticella del suono verso una forma di metal estremo veramente altra rispetto a quanto sentito sull’esordio “Soulside Journey”, del resto ormai disconosciuto e votato a sonorità death; il successivo rende compiuta la trasformazione musicale, regala alcuni brani memorabili e assesta una serie di elementi tematici che, nel 1993, risultavano ancora acerbi tra i compagni di viaggio nelle gelide lande del Nord. Anzi, a voler parlare chiaro, nel biennio precedente un ‘black metal underground’ consolidato non esisteva materialmente. Ma quando esce “Transilvanian Hunger”, la valanga si è già mossa: il nucleo agglomerante rappresentato da Helvete ha fatto in tempo ad aprire, riunire un nucleo di folli ma innovativi musicisti, chiudere (e sappiamo perché, ma è un’altra storia). E se rispetto ai capostipiti assoluti hanno ormai fatto la loro comparsa sulle scene i più giovani Emperor, Satyricon, Ulver & Co., per i membri dei Darkthrone è già tempo di prendere le distanze, sempre ahead of their times, almeno nei propositi. Negli intenti di Fenriz e Nocturno Culto, che rimarranno da qui in poi gli unici componenti della band, questo album deve suonare come l’album black metal definitivo, quasi un aggiornamento adeguato al tempo di quanto fatto dagli iconici Bathory nei loro primi album: da qui anche la scelta di limitarsi a una registrazione bieca e a dir poco lo-fi su quattro piste ai m(ef)itici Necrohell Studios, di fondo lo studio portatile di Fenriz stesso. E poi, come altro elevarsi e separarsi dalla gramigna che inizia a crescere, infestante, sul verde e un tempo intonso prato del genere? Per esempio andando contro ogni intento commerciale. Non sarebbe nemmeno da citare la copertina, che mostra un quasi irriconoscibile Fenriz in corpse painting che regge un candelabro, in un bianco e nero contrastatissimo e disturbante, a toccare l’apice di quanto già visto sui due album precedenti. E ancora, a parte la title track e “As Flittermice As Satan Spys”, i titoli e i testi dei brani sono tutti in norvegese, una scelta che i Darkthrone non avevano mai percorso, eccezion fatta per la singola “Inn I De Dype Skogers Favn” nell’album precedente. Se uniamo a ciò la prima apparizione della famosa definizione ‘True Norwegian Black Metal’, che compare sulla copertina, la dichiarazione di intenti è fortissima, definitiva appunto: questo è il black metal, appartiene solo a noi e gli altri, be’, si fottano. Al punto che dopo la prima stampa fu eliminato, ma sul retro era ben visibile anche un altro, delicatissimo slogan: Norsk Arisk Black Metal, ossia black metal ariano norvegese; perché, come da dichiarazioni della band, ‘il disco si pone al di là di ogni critica. Chiunque voglia provare a criticare questo lavoro, va giudicato per la sua evidente attitudine da ebreo’. Come giustificare queste frasi, che determinarono anche la (temporanea) separazione da Peaceville? Secondo Fenriz, che fece negli anni molta autocritica per questa idiozia tardoadolescenziale, era un modo canonico di appellarsi per darsi degli stupidi, ma è impossibile non vedere nella somma di questi elementi un ergersi superomistico sopra qualunque possibile confronto. Il Black Metal, come detto, siamo solo noi, e forse possiamo includere Burzum; il cui mastermind Varg Vikernes scrive metà dei testi contenuti nell’album, quattro brani imbevuti di tradizionalismo e nostalgia da bardo del Grande Nord analogamente a quanto percorso nel suo progetto principale. E se vogliamo narrare compiutamente il dietro le quinte di quest’album, non ci vuole una grossa indagine o chissà quale sofisticatezza mentale per trovare un’ulteriore scelta di campo, in questa collaborazione… quando “Transilvanian Hunger” vede la luce, Varg è prossimo al processo per l’omicidio di Euronymous, quello stesso Euronymous a cui, invece, era devotamente dedicato “A Blaze In The Northern Sky”: evidentemente qualcosa è cambiato, per i Nostri, o semplicemente la comunanza di intenti e il rispetto artistico, in una sorta di aberrazione crociana, fanno sì che qualunque componente vada in secondo piano rispetto a quella musicale. Passando appunto al contenuto musicale, resta quasi poco da dire, se non che abbiamo a che fare con otto vere e proprie icone del genere. La title track apre le porte del gelo più maligno con un riff che blocca la circolazione del sangue, altri due si sostituiscono prima del ritorno circolare del tema portante sul finale, e tutto l’album è una sequenza magistrale sulla sei corde; non conta l’esecuzione, non contano i pattern di batteria, tanto che il primo vero cambio di tempo, fatto salvo un fill-in sul finale del secondo brano, avviene a metà album – con le accelerazioni di “Graven Tåkeheimens Saler”: il riffing è per i Darkthrone l’unica essenza del black metal, e Fenriz e Nocturno Culto non ne hanno mai fatto mistero. “Over Fjell Og Gjennom Torner” riduce ancora più all’osso ogni struttura musicale, portandoci davvero in cima ai monti norvegesi evocati dalla linea vocale, abrasiva e crudele, che senza soluzione di continuità sfocia nelle successive “Skald av Satans Sol” e “Slottet i det Fjerne”, nella costruzione di un trittico che rappresenta appieno la weltanschauung dei Darkthrone: un mondo oscuro, lontano dalla civitas sia fisicamente che culturalmente, perché non sussiste più alcun interesse per la parte antropizzata del mondo. Ed è su questa spina dorsale che si innesta la seconda metà dell’album, i cui testi, appunto, furono composti dal turpe Conte; musicalmente non cambia molto, anche se forse si può scorgere un vaghissimo imbarbarimento della voce di Nocturno Culto. Quasi a voler sottolineare il fatto di diventare, in qualche modo, un interprete o un oracolo – e va ammesso che le lyrics, negli ultimi brani, si fanno decisamente più intense e complesse. Parallelamente l’atmosfera diventa ancora più plumbea, più ossessiva (il riff di “I en Hall med Flesk og Mjød” è un vero trapano che fora l’anima), perfino più nichilista. Che le chiese, gli esseri umani e questo mondo brucino definitivamente, pare essere il messaggio, e del resto sul finale di “As Flittermice As Satan Spys”, già impreziosito da un improbabile assolo sui generis, si può udire al contrario una frase in tal senso: ‘In the name of God, let the churches burn’. La conclusiva “En As I Dype Skogen” ci riporta nelle foreste, quasi che il monstrum chiamato Darkthrone, dopo essere uscito dalla sua tana e aver diffuso il verbo, volesse ritornare all’isolamento, lontano da questo mondo. Un mondo che, con questo lavoro, segnò indelebilmente, ispirando migliaia di epigoni tutt’oggi. So pure, evil, cold.