9.0
- Band: DARKTHRONE
- Durata: 00:40:43
- Disponibile dal: 15/02/1993
- Etichetta:
- Peaceville
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Anche se è estate, alle sei del mattino a Bergen fa ancora buio. Le fiamme che stanno divorando la stavkirke di Fantoft si stagliano contro il cielo color ferro. Un gruppuscolo di persone osserva immobile la scena infernale dell’antica chiesa in legno che brucia, mentre i vigili del fuoco fanno il possibile per contenere l’incendio. È il 6 giugno 1992.
Della stavkirke resterà in piedi solo lo scheletro annerito che campeggia sulla copertina di “Aske”, famigerato EP di Burzum sul quale ci sarebbe molto da scrivere. Ma la storia che vogliamo raccontare non è quella di Varg Vikernes e dell’intervista demenziale che rilascerà di lì a breve, né quella del suo rapporto con Euronymous – ovvero l’altra cosa di cui, dopo il rogo di Bergen, rimarranno solo le ceneri. Questo è solo lo sfondo. La scena che ci interessa comincia nelle stesse settimane in un paese di seimila abitanti a una quindicina di chilometri da Oslo, in un piccolo studio di registrazione che si affaccia su una strada costeggiata da anonimi parallelepipedi in cemento armato. È il Creative Studio di Kolbotn, che insieme all’Hellvete costituisce il centro nevralgico del nascente circuito black metal norvegese. Un circolo underground che sta per diventare un caso nazionale, ma che per il momento è solo un pugno di ventenni tanto politicamente deliranti quanto artisticamente maturi.
Nel giugno del 1992, tre di questi ventenni stanno registrando un disco proprio lì, a Kolbotn, il paesino in cui abitano. Si chiamano Leif Nagell, Ted Skjellum e Ivar Enger, ma si sono ribattezzati rispettivamente Fenriz, Nocturno Culto e Zephyrous. Enger, che suona la chitarra, ha scazzato con gli altri due: si sente tagliato fuori e forse ha un po’ ragione. Finito di registrare l’album, complici anche un incidente d’auto e qualche problema con l’alcool, deciderà che con quel progetto musicale ha chiuso. Peccato, perché il progetto si chiama Darkthrone.
Giusto quell’anno, i Darktrhone hanno vinto una specie di scommessa con Peaceville, la loro etichetta. Peaceville li aveva messi sotto contratto per fare death metal sulla scia del loro debutto, “Soulside Journey”, invece i Darkthrone si erano presentati con un secondo album gelido e cattivo, prodotto al minimo, ascrivibile in tutto e per tutto a quella corrente black che stava reinventando l’eredità di Bathory e Celtic Frost. Peaceville aveva nicchiato, aveva chiesto di farci almeno un remix, ma i Darktrhone si erano impuntati e alla fine “A Blaze in the Northern Sky” era uscito così com’era. Ed era andato benissimo, assicurando al trio carta bianca (o nera, che dir si voglia) per il prossimo lavoro.
Ed eccoli lì, quindi, ai Creative Studio a incidere quello che diventerà “Under a Funeral Moon”, secondo atto della cosiddetta Unholy Trinity che si completa con “Transilvanian Hunger”. È un album pazzesco, ma che ha avuto il destino un po’ balordo di uscire tra un lavoro straordinariamente innovativo e un altro che, a trent’anni di distanza, è ancora quello che si fa ascoltare a qualcuno che non conosce un genere per fargli capire di cosa si tratta. Forse anche per questo, al momento della sua pubblicazione, ha mancato un po’ l’effetto ‘instant cvlt’ degli altri due capitoli di quell’irripetibile trilogia, e forse per una distensione dell’effetto sorpresa generato da “A Blaze…” non è stato accolto con grandi favori di critica: troppo ripetitivo, troppo agganciato al suo predecessore, troppo inascoltabile, insomma, troppo black metal. A volte viene descritto come un album di consolidamento o di passaggio, ma è una definizione riduttiva. Se non altro, lo è perché stando a quanto dichiarato dallo stesso Ferniz in un’intervista rilasciata proprio per Peaceville, è durante le session di “Under A Funeral Moon” che i Darkthrone hanno davvero gettato le fondamenta di un modo di fare musica estrema. È qui che hanno imparato a padroneggiare la macchina diabolica che avevano inventato.
Nelle loro intenzioni, “Under a Funeral Moon” doveva essere un concentrato di black metal puro e crudo, emendato dalle scorie death di “A Blaze…” e ulteriormente svuotato nel sound. E se solo un anno dopo non avessero pubblicato quel capolavoro di minimalismo ostile che è “Transilvanian Hunger”, forse “Under a Funeral Moon” oggi sarebbe il disco di riferimento di quella stagione, con i suoi riff tormentosi incastonati in un songwriting ancora scatenato e viscerale, col suo vibe aristocratico e punk insieme e con quel suono teso e rattrappito come la pelle sul volto di una mummia. È più marcio e più diabolico di “A Blaze…”, ma c’è ancora un sottile strato di polpa, soprattutto nelle linee di basso e di batteria, che verrà poi strappato via nello scheletrico “Transilvanian…”. C’è anche un gusto post-adolescenziale per lo storytelling, che si esprime sia nei testi (con tutto il rispetto, chi li ha definiti ‘poetici’ è come minimo di bocca buona), sia nella copertina con Nocturno Culto in veste di Tristo Mietitore, che segna anch’essa una sorta di transizione tra la bassa esposizione dell’artwork precedente e il bianco e nero a ultra-contrasto del successivo. Ma l’approccio è potentissimo proprio perché spontaneo, senza filtri e senza smussature. È true nel vero senso del termine, ovvero è genuino, credibile: sono credibili il compianto per la morte della strega amata nell’ossessiva “Natassja in Eternal Sleep”, gli spiriti che ondeggiano sulle note di “The Dance of Eternal Shadows”, le bestemmie zoofile evocate in “Unholy Black Metal”.
Musicalmente, “Under A Funeral Moon” si regge su poche idee, ma ben solide: riff taglienti, sporcati di rock ‘n’ roll e punk, alternati a lamentazioni doom e sostenuti da una sezione ritmica martellante, ma agile. Su tutto, una voce che si libra come un volo di pipistrello, seguendo una rotta invisibile individuata più ad istinto, che col compasso. Dopo l’agonia iniziale sulla tomba di “Natassja”, si viene incalzati giù per la “Summer of the Diabolical Holocaust”, in cui la chitarra ulula contro la luna piena, per poi trovare un attimo di funerea pace sull’apertura doom di “The Dance of Eternal Shadows”. Solo un attimo però, perché subito ripartono i blast-beat che aprono la strada all’irresistibile giro di chitarra di “Unholy Black Metal”, ammiccante e nerissima insieme. E in questo trionfo dell’immaginario di tutto un genere, non poteva mancare qualche riamando ad un’estetica medievaleggiante, che infatti fa capolino nella solenne “To Walk the Infernal Fields”, la cui lunga digressione strumentale lascia spazio anche a qualche accenno di sperimentazione, con suoni ambientali o forse ricreati soffiando e battendo su un microfono. Varcata la metà dell’ascolto, non solo la qualità e la tensione non calano, ma con la malignissima title-track raggiungono forse il loro picco grazie ad un riff indimenticabile, a un coinvolgente piglio punk e vagamente thrash e ad alcuni momenti di pura libertà creativa. Da qui, ci si cala nell’abisso più profondo toccato dal platter con “Inn I De Dype Skogens Fabn”, una cavalcata attraverso una coltre densa come la pece che si chiude con un imprevedibile colpo di coda. Gli ultimi metri, su “Crossing the Triangle of Flames”, coronano un ascolto che sa di inseguimento per i boschi notturni di una Norvegia decrepita, ma pulsante di una rabbia giovane, radicale, sprezzante verso qualsiasi compromesso.
“Under a Funeral Moon” esce a febbraio. A luglio esce “Live in Leipzig” dei Mayhem. Ad agosto, “Det Som Engang Var” di Burzum. Quello stesso mese, Euronymous muore accoltellato sulle scale del condominio in cui abita. A novembre, mentre tra Norvegia, Svezia, Grecia e perfino in Giappone si pavimenta la strada per il memorabile anno che verrà, Fenriz e Nocturno Culto stanno già registrando nuovo materiale. Ne abbiamo scritto qui.