7.0
- Band: DAWN OF A DARK AGE
- Durata: 00:38:37
- Disponibile dal: 24/09/2021
- Etichetta:
- Antiq Records
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Nel ritorno dei Dawn Of A Dark Age gli elementi di forza restano gli stessi a cui già ci hanno abituato: atmosfere intense, ricercatezza e ricchezza nell’uso di svariati strumenti, anche e soprattutto quelli meno afferenti, di solito, al mondo metal.
Con loro tornano in scena anche i Sanniti e con essi le radici dello stesso Sabelli, nella celebrazione di uno dei momenti più celebri di questo fiero popolo dell’antichità, e parimenti uno dei momenti più umilianti della storia di Roma. Sono diversi gli ospiti di livello, tra cui diversi membri degli Hanternoz – uno, del resto, anche titolare dell’etichetta Antiq per cui esce questo disco, oppure Simone Baù dei nostrani À Répit, oltre ad altri musicisti che avevano già orbitato in passato intorno alla band; resta comunque un lavoro guidato dall’estro compositivo e dalla cura maniacale di Sabelli (e dell’ormai assodato sodale Prandoni), ma che splende particolarmente di questo apporto collettivo, non a caso fatto di nomi che sul territorio liminale tra estremo, sperimentazione e folklore si muovono a proprio agio.
Questa ricercata polifonia è perfetta per ricreare la tensione della battaglia: si innestano tra loro senza sbalzi passaggi folk e riff intensi, elementi jazz più mediati, ma evidenti negli assoli di clarinetto, con crescendo e rallentamenti dall’efficace gusto teatrale, in continuità con la storia della band, pur con differenze peculiari al tempo stesso. Rispetto alla sperimentazione e alla centralità della narrazione del primo brano, la seconda traccia è più movimentata e ‘metal’, anche se le virgolette sono d’obbligo. L’afferenza al mondo black, al di là del ricorso a un cantato ruvido, risiede nelle atmosfere e in quell’amore per la tradizione e il racconto di essa che ha spesso segnato il genere. Proprio le parti narrate arricchiscono ovviamente il concept, ma anche il senso di coinvolgimento; sono rette quasi sempre da tappeti dei più inaspettati ma efficaci strumenti (cornamuse, archi, trombone, eufonio, strumenti tradizionali come il darbuka) e da una batteria che, nella sua varietà, conferma l’enorme classe di Emanuele Prandoni. L’ultima parte del disco mette poi in campo una ritmica jazz nel totale connubio tra i vari strumenti che accresce il senso epico complessivo, confermando che non ci troviamo di certo di fronte a un disco ‘facile’, ma sicuramente affascinante come da tradizione per questa peculiare band.