7.5
- Band: DEATH DEALER
- Durata: 00:50:24
- Disponibile dal: 14/06/2013
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I Death Dealer sono la nuova creatura che gli amanti del classic-power più tradizionalista stavano aspettando al varco dall’anno scorso, quando il gruppo è stato fondato. Nata dall’unione di più musicisti ben noti nel genere, la band si presenta con un debutto convincente al punto da permetterci di considerarla più che uno dei soliti tentativi di attirare fan grazie alla fama dei personaggi coinvolti. Chi, difatti, fra gli appassionati non conosce gli ex-Manowar Ross The Boss e Rhino? Il primo ha fatto la storia del gruppo con i primi sei fondamentali album, mentre il secondo ha inciso le potentissime parti di batteria del successivo “The Triumph Of Steel”. Completano poi la formazione il chitarrista, ex-Dungeon e attuale Empires Of Eden, Stu Marshall, il bassista di Rob Halford, Mike Devis, e il cantante dei Cage, Sean Peck. Non mancavano quindi i presupposti per un disco degno di nota, quale infatti “War Master” si rivela essere. Celato dietro una tamarrissima copertina alla Warhammer e guidato da una sezione ritmica dal tiro devastante, da una coppia di chitarre qui discretamente ispirata e da un frontman talmente estremo nel suo viaggiare su tonalità alte che ad alcuni potrà quasi dar fastidio, il disco appare come un concentrato di adrenalina ed energia pura che ritroviamo sia nei frangenti più tirati che negli episodi più cadenzati e trascinanti. Gli assalti in doppia cassa al limite dello speed-thrash con riff velocissimi sono ad ogni modo la dimensione in cui il gruppo si destreggia meglio e la opener “Death Dealer” o la stessa titletrack ne sono l’esempio più lampante. Due brani di power americano direttissimo e dal grande impatto, con ritornelli immediatissimi dominati dal cantato di Sean Peck che appare come un Rob Halford della celebre “Painkiller” o un Tim Owens ancor più estremizzati verso l’alto. Non mancano, come detto, anche brani in cui i riff si fanno cadenzati, come nel caso della monolitica “Hammer Down”, il mid tempo migliore del lotto, o addirittura dove trovano spazio anche rallentamenti a livello di semi-ballad, come invece possiamo apprezzare nelle parti più pacate di “Children of The Flames”. Adeguata la scelta di suoni non lucidati o pomposi, come spesso si sente nelle produzioni europee, ma semmai orientati verso un sound più grezzo che valorizza l’aggressività delle composizioni, più che la loro componente melodica. Un paio di brani non ispirati quanto i precedenti, nella fattispecie “Liberty or Death” e la conclusiva “Wraiths On The Wind”, non ci permettono di poter parlare di disco da top ten annuale, ma quello che abbiamo potuto sentire su questo debutto ci consente certamente di consigliare il lavoro a chi segue il più muscolare e meno sdolcinato power di matrice statunitense.