10.0
- Band: DEATH
- Durata: 00:50:38
- Disponibile dal: 21/03/1995
- Etichetta:
- Roadrunner Records
- Distributore: Self
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Prima ancora che un disco, “Symbolic” è un’opera d’arte permeata di sensazioni che grondano per cinquanta minuti, ossessivamente. Una malinconia suggerita dalle (e nelle) note stesse, da testi esistenzialisti pregni di elucubrazioni adulte, colte ma non istituzionali in senso stretto, una voce ormai cresciuta e che a più di vent’anni dalla sua pubblicazione conferma il valore del sesto lavoro dei Death, un compendio di vibrazioni che supera il confine del mero prodotto musicale assumendo il connotato della pietra miliare, dell’opera che crea una serie infinita di ‘prima e dopo’. Difficile scindere, però, nella discografia della band di Chuck Schuldiner, quale tassello sia stato quello fondamentale o definitivo, ed è vero che mai come con i Death vi sia un disco preferito per ogni testa pensante. Ogni album degli americani avrebbe un motivo per essere oggetto di studio, ma vero è anche che “Symbolic”, nel suo riscrivere ancora una volta le regole del gioco, si trovò ad essere una vetta da cui scrutare come vi si era giunti e verso dove si poteva andare ripartendo da lì. Siamo nel caduco e insidioso terreno dei lavori fondamentali, dove si usano espressioni come ‘disco più importante di un genere’, nell’ambito dei cosiddetti game changer: ognuno si sarà fatto una sua opinione dal 1995 ad oggi, ma probabilmente la nostra musica preferita non sarebbe la stessa, oggi, senza l’uscita di “Symbolic”.
Quando la title track apre le danze con un riff che diventerà immediatamente classico, si entra in un universo di dolore e domande, di dubbi senza risposta, di ricordi aggressivi. Una costruzione tipica della canzone alla Death, passaggi da enciclopedia del metal, una serie di momenti che diverranno da lì in poi standard del genere; e questo si potrebbe ripetere per l’ascolto di tutto l’album. Gene Hoglan, alle pelli, funge da co-protagonista perfetto, spalla e spina dorsale che setta battiti e pulsazioni, anche qui, divenute riconoscibili da allora. Basterebbe mettere play per pochi secondi in un punto a caso del disco per sapere di cosa stiamo parlando. E se “Zero Tolerance” s’imbeve di un bruciante cinismo lirico sopra il quale gli scambi tra Chuck e Bobby Koelble prima disegnano il paesaggio, poi lo lacerano, e infine lo rimodellano, l’intro di “Empty Words” introduce a un altro tipo di amarezza tangibile, palpabile, che travalica il concetto stesso di brano musicale, costruendo un’intera struttura quasi teatrale. “Sacred Serenity” prosegue per quella strada, con il basso di Kelly Conlon che apre un altro capitolo in un incedere più marziale che prima d’ora, una marcia precisa, scandita, ricca di dettagli e rifiniture che portano a un altro pezzo da novanta: “1,000 Eyes” è cruda, polemica, maestosa, aumenta i toni per poi rallentarli, usa le chitarre come megafono di un pensiero che si mette in primo piano e pure va a fare da sfondo, settando toni, accompagnando un testo sprezzante che, come tutti gli altri, si colloca su un altro piano rispetto a qualsiasi altro lavoro del genere. I testi in effetti meriterebbero una discussione a parte, ricchi come sono di una tristezza che emerge chiaramente dai pensieri di un Chuck maturo e segnato dalla vita, scritti con un piglio filosofico molto delicato.
“Without Judgement” arriva come un altro schiaffo, e oramai constatare la forma splendente della lineup è un esercizio completamente inutile, ogni secondo che passa succede qualcosa che ci lascia sbalorditi, come con quel ponte che porta al ritornello, o con uno stacco netto crea un’altra di quelle aperture emozionali di cui si è sopra parlato, un mondo nel mondo costruito con gli stessi crismi e un’altra penna. Come se non bastasse, la secca fine del brano ci lascia in sospeso fino a uno degli highlight assoluti di “Symbolic” e dell’intera opus dei Death: “Crystal Mountain” entra come una valanga, rigira nuovamente ogni cosa attorno a sé, incede, divaga in arpeggi e riff che diventano ripetizione (una ripetizione assolutamente necessaria) e pungono fino a farci sanguinare: siamo di fronte ad un pezzo nel quale ogni diversa sezione potrebbe essere, per un altro gruppo, lo scheletro per un’intera canzone, mentre i Death si prendono la libertà di condensare tutto ciò in quattro minuti scarsi. Ormai pronti a tutto, arriviamo verso la fine. “Misanthrope” non ci accoglie, ci stordisce: il pugno è chiuso quando la canzone apre a un altro atto, forse quello che a modo suo guarda più indietro, che più degli altri sembra raccogliere l’eredità di quel ragazzino che scriveva “Leprosy” o “Scream Bloody Gore”, pur tuttavia con uno stile adeguato al presente. Infine giungiamo a “Perennial Quest”: un pezzo forse meno rappresentativo dei precedenti, ma quello al quale chi scrive è più affezionato. Forse il più anarchico del lotto, sghembo a modo suo, dove Gene Hoglan tira fuori un’altra prova pazzesca, dove i toni si mischiano, dove la rabbia e la tristezza si inseguono incessantemente, dove l’indefinibile viene a galla ancora più irrisolto, dove la musicalità e la tetra violenza abbracciano le proprie velleità fino ad un finale acustico che è l’apice di quella mestizia totalizzante che si erge al di sopra di “Symbolic”. Quel paio di minuti che chiudono il disco vanno a concludere così un’altra parte della storia, che si evolverà ancora una volta, l’ultima purtroppo, in una forma nuova, in un dipinto inedito dove la mano dell’autore è sempre ferma e riconoscibile. Capolavoro indiscutibile.