6.0
- Band: DEEP PURPLE
- Durata: 00:57:05
- Disponibile dal: 02/06/1998
- Etichetta:
- EMI
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Fino ad oggi, tutte le volte che ci siamo imbattuti in una crisi o un calo qualitativo nel lavoro dei Deep Purple, è stato sempre possibile circoscriverne le cause: le tensioni interne tra le forti personalità del gruppo, un nuovo innesto che non si amalgama con il resto dei musicisti, oppure semplicemente un album realizzato per dovere, da musicisti che vorrebbero essere dovunque tranne che seduti assieme in uno studio di registrazione. Quello che non si riesce a spiegare, invece, è un album come “ABandOn”, un vero e proprio passo falso che arriva dopo una ventata di aria fresca come l’arrivo di Steve Morse e un album di altissimo livello come “Purpendicular”. Nel 1997 i Deep Purple non stanno passando un momento negativo: Morse è perfettamente integrato negli ingranaggi della band, l’album pubblicato un paio di anni prima ha avuto un’accoglienza più che dignitosa, contando l’enorme scoglio da superare della dipartita di Blackmore, e i cinque continuano a girare il mondo regalando ottimi show. Certo, è cambiato molto il music business: siamo negli anni del nu-metal e questi arzilli cinquantenni, per quanto inarrestabili, rischiano di essere relegati nel circuito del classic rock più nostalgico; nonostante questo, però, non si spiega un tale divario tra il precedente lavoro e il nuovo “ABandOn”. I Deep Purple si chiudono nei Greg Rike Studios in Florida e questa volta i brani che prendono vita non hanno la varietà dei precedenti, ma si concentrano di più sulla classica forma hard rock. Il risultato, quindi, è un album piuttosto robusto nelle sonorità, ma decisamente monotono. Le composizioni di “ABandOn” ondeggiano tra episodi di maniera, ma tutto sommato positivi, come “Almost Human”, “Seventh Heaven” e “Watching The Sky”; rari momenti bluesy (“Don’t Make Me Happy”); qualche passaggio più scanzonato e divertente come “Jack Ruby”; ma in generale la sensazione è di avere a che fare con canzoni prive di mordente, che viaggiano col pilota automatico, quando non sono semplicemente brutte. I due episodi migliori, a parere di chi vi scrive, sono l’iniziale “Any Fule Kno That”, aggressiva e graffiante al punto giusto, con una prova vocale quasi ‘rappata’ di Ian Gillan, e “Fingers To The Bone”, più ariosa e solare e capace finalmente di dare un colore diverso ad un album altrimenti monocromatico. Piuttosto inutile, infine, la scelta di registrare una nuova versione di “Bloodsucker” (originariamente inserita in “In Rock” e qui ribattezzata “Bludsucker”) che non aggiunge nulla al pezzo storico e non risolleva certo le sorti dell’album. Ci sono tanti episodi nella carriera pluridecennale dei Deep Purple che non rimarranno negli annali della musica, ma anche in quelli più opachi la formazione è sempre riuscita a regalare qualche perla, indipendentemente dalle condizioni in cui versavano i membri: questa volta, invece, i cinque musicisti si sono accontentati di svolgere il loro compitino, con il risultato di firmare il loro album meno interessante. Chissà cosa sarebbe successo se tutto fosse rimasto immutato negli anni successivi: “ABandOn” sarebbe stata semplicemente una battuta d’arresto o l’inizio di una definitiva parabola discendente? Invece, ancora una volta, un altro scossone attende la travagliata storia dei Deep Purple e la storia prenderà un altro corso, nel bene o nel male.