10.0
- Band: DEEP PURPLE
- Durata: 00:42:50
- Disponibile dal: 05/06/1970
- Etichetta:
- EMI
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Il concerto alla Royal Albert Hall è appena passato e i Deep Purple hanno potuto godere di una buona esposizione mediatica, eppure non si può dire che la band stia passando una fase particolarmente felice, quantomeno dal punto di vista economico. La serata con l’orchestra è stato un appuntamento oneroso per le tasche degli inglesi e a questo si aggiunge la crisi nera in cui sta versando la Tetragrammaton che, ormai ad un passo dalla chiusura, smette di pagare i diritti d’autore sul catalogo in commercio. Blackmore e soci, dunque, sono costretti a suonare il più possibile per far quadrare i conti e portare avanti il loro progetto. Non tutti i mali vengono per nuocere, come si dice, e questo lungo periodo di attività serve a raffinare ulteriormente l’abilità dei cinque e ad integrare perfettamente gli ultimi arrivati, Ian Gillan e Roger Glover, permettendo ai Deep Purple di entrare in studio con Martin Birch pronti per regalare al mondo una pietra miliare del rock. Il produttore li affianca nelle registrazioni e riesce a dare un sound potentissimo, seguendo la richiesta molto chiara fatta dai musicisti: mettere in musica un carichissimo, selvaggio e inarrestabile album rock. Basta divagazioni ed esplorazioni in territori poco noti, niente psichedelia, niente quartetti d’archi, nessuna reminiscenza beat: se c’è un punto di riferimento, non da imitare, ma al massimo da superare, quello è il celebre “Led Zeppelin I”, album d’esordio di Page e compagni che aveva tracciato un solco netto su cosa volesse dire picchiare duro. I Deep Purple sanno di non essere da meno e basta mettere sul piatto questo “In Rock” per essere spazzati via dalla carica di “Speed King”. Un ascoltatore più giovane, abituato magari alle più violente nefandezze della musica metal, può magari sorridere accostando il termine heavy ai Deep Purple, ma ragionando in prospettiva, l’attacco frontale di “Speed King”, seguito a ruota da un altro concentrato di energia elettrica allo stato puro come “Bloodsucker”, è qualcosa di mai sentito ed eguagliato forse solo dal primo album dei Black Sabbath, pubblicato nel medesimo anno. La qualità compositiva espressa dal gruppo è di livello superiore: i due brani citati restano tra le vette assolute raggiunte dai Deep Purple, ma il resto della tracklist non è da meno, “Flight Of The Rat” e “Hard Lovin’ Man” sono un vortice di emozioni, come un ottovolante impazzito in cui i cinque musicisti sembrano quasi fare a gara per dimostrare tutto il loro potenziale. Non a caso scoppia più di un diverbio in studio tra le varie personalità forti del gruppo, eppure il risultato finale resta di un equilibrio invidiabile. Continuiamo citando “Living Wreck”, con quei suoi squarci di organo che dimostrano, se mai ce ne fosse bisogno, come Jon Lord fosse ben lontano dal voler ammorbidire il sound del gruppo, ed “Into The Fire”, con quel suo incedere arrogante e la performance azzeccatissima di Gillan. Naturalmente non potremmo concludere questa recensione senza parlare di “Child In Time”, composizione semplicemente mastodontica, che riesce ad attraversare uno spettro di emozioni amplissimo, partendo con leggiadria, per poi inerpicarsi verso la leggenda in un vortice, con Blackmore e Lord a ridefinire gli standard della musica rock fino a quel momento nota. Ian Gillan, infine, entra di diritto nella storia con una prova vocale al di fuori delle capacità umane. I Deep Purple, dunque, con queste sette composizioni eccezionali si presentano alla Harvest, la loro nuova etichetta, ma ancora i discografici non si ritengono soddisfatti: quello che manca, secondo loro, è un singolo, qualcosa di facilmente spendibile in radio e che possa trainare l’album. I cinque non sono particolarmente interessati alla questione: la musica rock sta passando quella fase adulta che cerca di affrancarsi dalla logica del singolo pop di largo consumo; ciononostante la band rientra in studio. I primi tentativi si rivelano inconcludenti e il gruppo decide di andare a bere qualche bicchiere, sperando di essere colti dall’ispirazione: rientrati in studio, Blackmore e Glover iniziano a lavorare su una melodia accattivante e poco dopo, ecco il sospirato singolo pronto e finito. Il titolo di questa canzone, costruita su due piedi quasi per dovere… è “Black Night”.