7.5
- Band: DEEP PURPLE
- Durata: 00:55:53
- Disponibile dal: 21/10/2005
- Etichetta:
- Edel
- Distributore: Edel
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“I Deep Purple esistono solo nella formazione classica, con Gillan alla voce”. “I Deep Purple senza Blackmore non hanno alcun senso”. “I Deep Purple senza Blackmore e Lord farebbero meglio a ritirarsi”. Ecco, sevi riconoscete in una di queste affermazioni, forse dovreste rinunciare in partenza alla lettura della recensione perché, indubbiamente, la band che speravate di ascoltare non esiste più. Sono trent’anni, ormai, che le tre sentenze poste in apertura circolano attorno alla storica band inglese eppure, con grande maestria, i Deep Purple hanno continuato a sfornare album onesti e dignitosi, se non dei veri capolavori, anche senza l’apporto dei musicisti citati. Tant’è che i puristi più intransigenti del ‘Mark II’ (così viene definita la line-up classica formata da Blackmore/Gillan/Glover/Lord/Paice) si sono persi non solo gemme immortali e imprescindibili come “Burn” (1973) e“Stormbringer” (1974), ma anche ottimi lavori come “Come Taste TheBand” (1975), “Purpendicular” (1996) e, appunto, il nuovo “Rapture Of The Deep”. La prima considerazione che bisogna fare ascoltando l’ennesima fatica dei Deep Purple è proprio come la band, nonostante quasi quarant’anni di attività intensa, sia finalmente tornata ad una nuova giovinezza: l’innesto di Don Airey ha spazzato via la stanchezza che frenava la band nell’ultimo periodo, prima dell’abbandono di Jon Lord, e Steve Morse, ormai da dieci anni nella line-up del gruppo, fa dimenticare i continui screzi, tira-e-molla e litigi del geniale (quanto lunatico) Ritchie Blackmore.
Iniziamo, dunque, a parlare di “Rapture Of The Deep”: naturalmente non avrebbe alcun senso cercare di paragonare, ma anche solo accostare, questo lavoro ai capolavori senza tempo degli anni ’70, ma possiamo dire, con tutta certezza, che il nuovo album vede la band ulteriormente migliorata rispetto al già più che buono “Bananas”. Le composizioni, infatti, pur rimanendo stilisticamente simili all’album precedente, sembrano molto più articolate, con la band che, finalmente, ritrova il gusto di jammare, rispolverando i magnifici duelli tra organo e chitarra che hanno reso unico il loro sound. La qualità dei pezzi è sempre elevata, con pochissime cadute di tono: abbiamo l’ottima “Money Talks”, la cui struttura ricorda “Perfect Strangers”; la divertente“Girls Like That”, in pieno stile “Bananas”; l’hard funky di “MTV”, con un ironico Ian Gillan in splendida forma; e la pregevole “Junkyard Blues”, dove la band si lancia in mirabolanti intermezzi strumentali. Tra gli episodi più alti dell’album vanno citate la stupenda title-track, un brano articolato che sarebbe potuto uscire dalla penna di Ritchie Blackmore, con le sue ottime melodie orientali e i suoi intrecci strumentali; la progressiva “Back To Back”, dove un Don Airey in stato di grazia sfoggia dei pregevoli assoli di moog dal sapore settantiano; e la ballad “Clearly Quite Absurd”, soffusa e delicata all’inizio, che si conclude poi in un crescendo di emozioni, dettate dal basso di Glover e dall’organo di Airey. Un ennesimo centro, dunque, per una band che dopo aver scritto pagine e pagine della storia del rock ed aver calcato i palchi di tutto il mondo per quasi quattro decenni, ha ancora voglia di divertire e divertirsi, sfornando un lavoro pieno di ottime canzoni, suonato egregiamente da veri maestri del proprio strumento.