8.0
- Band: DEEP PURPLE
- Durata: 00:34:27
- Disponibile dal: 26/01/1973
- Etichetta:
- Purple Records
- Distributore: Warner Bros
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Nel 1973 i Deep Purple ormai sono delle rockstar, una macchina da guerra che vende milioni di copie, viaggia in limousine e può permettersi ogni sorta di capriccio da star. Il mondo discografico, dunque, non concede loro la benché minima tregua e la band viene spedita nel nostro Paese, a Roma, per iniziare a lavorare sulle nuova composizioni dopo il successo di “Machine Head”. In realtà, però, lo stallo creativo in cui versa la formazione inglese fa sì che queste prime sessioni si trasformino in un nulla di fatto, se non per una sola canzone, di cui parleremo più avanti. Chiusa l’esperienza italiana, i Deep Purple si rimettono in tour e riprendono a macinare chilometri e date, aumentando ancora di più lo stress e le tensioni interne, e portandoli ad ottobre alla seconda sessione di registrazioni, questa volta vicino a Francoforte. Anche in questa circostanza le cose non vanno per il verso migliore: Gillan e Blackmore fanno di tutto per non incontrarsi mai di persona: il chitarrista arriva e butta giù qualche idea svogliata, come se stesse facendo un favore alla band degnandoli della propria presenza; il cantante, invece, si presenta solo quando il chitarrista non c’è, mentre gli altri musicisti cercano di tirar fuori qualcosa di buono da queste registrazioni frammentate, ben lontane dalle grandiose jam che hanno reso celebri i Deep Purple. Cosa poteva venir fuori, dunque, da una situazione di questo tipo? Un mezzo disastro, sicuramente… E invece, neanche per sogno! Certo, “Who Do We Think We Are” non è un capolavoro assoluto come i tre album precedenti, ma la qualità del disco rimane comunque altissima, tanto da far impallidire tanti colleghi alla massima forma. Insomma, basta ascoltare questo disco, partorito da una band allo sbando, con musicisti che non si sopportano tra loro, che non vedono l’ora di fare altro e che addirittura (vedi Blackmore) si tengono le idee migliori in vista di un futuro album solista, per capire quanto fossero su un altro pianeta i Deep Purple dei primi anni ’70. “Woman From Tokyo”, unico brano dell’album registrato a Roma, è l’ennesimo classico, divertente, efficace, trascinante; “Mary Long” è una possente critica all’establishment, contro il moralismo bacchettone di due politici dell’epoca; “Rat Bat Blue” dà spazio ad un Jon Lord semplicemente monumentale e funambolico, mentre il resto della band graffia e morde senza lasciar trasparire la stanchezza che invece li pervade; mentre “Place In Line” è l’ennesima eccellente incursione in territori blues, con un Blackmore ancora capace di stupire e di lasciar cantare la sua chitarra con intensità e trasporto. Infine, non possiamo concludere senza citare il vero capolavoro del disco, “Smooth Dancer”: da un punto di vista lirico, una caustica critica di Gillan a Blackmore; musicalmente, un pezzo da novanta degno degli episodi migliori della discografia dei Purple. Certo, qualche episodio sotto tono c’è, come “Super Trouper” o la corale (e un po’ strana) “Our Lady”; di certo non si riescono a raggiungere i livelli di eccellenza visti nei tre anni prima e, ad esclusione di “Woman From Tokyo”, mancano dei veri e propri classici, ma ancora oggi “Who Do We Think We Are” resta un disco che merita di essere ascoltato e rivalutato.