7.0
- Band: DEEP VALLEY BLUES
- Durata: 00:32:35
- Disponibile dal: 29/11/2024
- Etichetta:
- Argonauta Records
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Il passaggio dalla lingua inglese a quella italiana è stato relativamente indolore per alcune band (un nome su tutti, gli Afterhours), mentre altre compagini hanno preferito limitarsi a sporadiche incursioni o esperimenti (i Lacuna Coil, ad esempio).
A partire dal 2016, i Deep Valley Blues di Catanzaro hanno intrapreso con fermezza il sentiero di un hard blues ruvido, dalle grasse venature stoner e sludge, che li ha portati a pubblicare, nell’arco di una carriera relativamente breve, un EP e due album (Demonic Sunset” e “III – Third”, quest’ultimo edito da Swamp Records nel 2021).
“Sangue E Veleno” segna l’esordio della band per Argonauta Records (da anni approdo ideale per gli amanti di queste sonorità) e apre con una triade di pezzi che mostrano quanto il gruppo sia cresciuto a livello compositivo in questi ultimi anni: mentre l’iniziale “Von Hell” rilegge i Kyuss di “Green Machine” in chiave più psichedelica e “Poltergeist” decide di avvalersi di un’ossessiva quanto efficace sezione ritmica, in “River Shuffle” si ha la sensazione realistica di vedere i Melvins alle prese con un pezzo degli ZZ Top.
Le perplessità emergono, tuttavia, al giro di boa dell’album, quando il gruppo (in linea con i primi tentativi proposti in “III-Third”) si cimenta appunto in alcuni brani in italiano: la title-track (che si ispira al personaggio DonQuijote Doflamingo di “One Piece”) riesce a mantenere un equilibrio invidiabile tra aggressività, melodia e metrica del testo, seguendo il buon precedente dei Varego (altra band che ha svolto una lunga gavetta nello stesso ambito musicale dei Deep Valley Blues), ma la successiva “Eternauta” fa rimpiangere l’assenza di un ben più musicale cantato in inglese, e lo diciamo a dispetto del pastoso sound hard rock e dell’eccellente lavoro alle chitarre di Umberto Arena e Alessandro Morrone. La sensazione non cambia in “Dove”, che nella parte strumentale è vicina allo sludge sudista degli Eyehategod, mentre nelle parole sembra memore degli esperimenti Fluxus nei primi due album (ma con un testo meno incisivo).
Insomma, da un lato si vorrebbe rendere atto ai Deep Valley Blues di aver affinato la loro capacità nel comporre brani dove differenti anime hard coesistono in armonia – lo strumentale “Sette”, che chiude il disco tra aromi space rock e fangosi interludi sludge, è un esempio perfetto del livello raggiunto da questi musicisti – dall’altro, il coraggio della band nel proporre testi in lingua italiana non si accompagna sempre a risultati soddisfacenti. L’impressione è quella di trovarsi quindi di fronte a due differenti EP, piuttosto che alle metà di uno stesso lavoro; come accade sovente in queste occasioni, il rischio è quindi quello di ritrovarsi con un tutto che è minore della somma delle singole parti.