9.0
- Band: DEFTONES
- Durata: 01:14:00
- Disponibile dal: 28/10/1997
- Etichetta:
- Warner Bros
- Distributore: Warner Bros
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Dopo aver contribuito, insieme ai Korn, a dare vita all’allora nascente movimento nu metal – "Adrenaline", debut album per la band di Sacramento, risale al 1995 – due anni dopo i Deftones sono pronti a fare il botto con "Around The Fur", disco ancora oggi da annoverare tra i capolavori assoluti del genere. Sgomberato il campo dalle influenze korniane che avevano caratterizzato il loro sound degli esordi, i nostri riescono in quest’occasione a coniugare alla perfezione l’aggressività del già citato "Adrenaline" con la sensibilità melodica che prenderà poi il sopravvento nel successivo capolavoro "White Pony", i cui prodromi sono già ben visibili nella tagliente opener "My Own Summer (Shove It)": affilata e sensuale come una lama di Elektra Natchios, la traccia di apertura si sviluppa in un’alternanza tra melodie sussurrate ad esplosioni di pura sofferenza, per un pezzo catartico ancora oggi tra i migliori della band. Non da meno è la successiva "Lhabia", primigenio esempio di emocore in cui la doppia personalità di Chino Moreno prende ancora il sopravvento, mentre i riff di Stephen Carpenter si incuneano sottopelle per poi esplodere all’altezza del ritornello. Dopo tanta rabbia, a farci tirare il fiato ci pensa la malinconica "Mascara", una sorta di "Digital Bath" ante litteram, da cui traspare chiaramente la passione dei cinque per le sonorità della dark wave, una passione che, come noto, ritroveremo in dosi ben maggiore nel successivo lavoro. Ma ora no, ora è tempo di dare sfogo alla proprio rabbia primordiale e quindi ecco che si riparte alla grandissima con la title track, introdotta da un ottimo pattern del batterista Abe Cunningham: pochi semplici colpi, poi un silenzio assordante squarciato dalle urla indemoniate di un Chino sempre più posseduto e dalle lancinanti distorsioni delle sei corde di Stephen, senza dimenticare gli effetti speciali gentilmente offerti Frank Delgado, addetto ai sample qui ancora presente in veste di ospite. Chi non ha certo bisogno di effetti speciali è la successiva "Rickets", song più breve del lotto trainata dalla forza matrice della sezione ritmica e dalle urla hardcore del sempre più indomito singer. E che dire poi di "Be Quiet And Drive (Far Away)"? Niente, se non che qui probabilmente si sfiora la perfezione nell’unire l’alfa e l’omega – o, se preferite, i Radiohead e i Pantera – in un’unica materia sonora plasmata alla perfezione dalle linee vocali del corpulento singer, marchio di fabbrica di una formazione straripante di personalità in ogni suo elemento. Dopo tanta grazia, la successiva "Lotion" scivola via senza lasciare troppo il segno, ripetendo in maniera meno ispirata le sfuriate di "Lhabia", per poi cedere il posto alla sognante "Dai The Flu", in cui il basso di Chi Cheng si ritaglia il suo spazio mentre un sussurro ci accompagna in una dimensione onirica, prima del brusco risveglio sul finale. Meglio così, perchè si torna a pestare duro con "Headup", composta insieme all’amico Max Cavalera e dedicata al di lui figliastro Dana Wells, la cui morte fu uno degli elementi che spinsero Max a lasciare i Sepultura per dare poi vita ai Soulfly, il cui nome compare per la prima volta proprio nel ritornello di "Headup". Dopo una simile scarica di adrenalina, la chiusura col botto si sviluppa in un finale in due atti: la partenza, lenta ma incisiva, è affidata ad "Mx", ennesima traccia in cui abbiamo modo di ammirare le acrobazie vocali del Chino, accompagnato stavolta dalla signora Cunningham alle backing vocals; una mezz’ora di silenzio, inframezzata solo dall’intervallo di trenta secondi di "Bong Hit", funge da preludio a "Damone", secondo atto sulle cui violentemente etereee note cala definitivamente il sipario su uno dei dischi più significativi degli anni ’90. Giù il cappello e sù il volume: la storia della musica passa (anche) da qui.