8.5
- Band: DEICIDE
- Durata: 00:28:09
- Disponibile dal: 17/04/1995
- Etichetta:
- Roadrunner Records
Spotify:
Apple Music:
Il “Master of Puppets” della mitica scena death metal di Tampa. È con quella che ci rendiamo conto essere un’affermazione molto forte, oltre che una provocazione coerente con la storia del gruppo, che vogliamo dare il là alla nostra dissertazione su “Once upon the Cross”, terzo capitolo della saga discografica dei Deicide. Un nome da sempre sinonimo di exploit straordinari e goffi capitomboli, di fascino e controversie, il cui mito, alimentato dalla personalità ingombrante di un frontman come Glen Benton, passa anche dai solchi di quest’opera, fin dalla sua uscita (siamo nel weekend di Pasqua del ’95) in grado di dividere pubblico e critica e sollevare accesi dibattiti sul suo valore storico e intrinseco.
Un album che, per essere compreso a fondo, sebbene non faccia certo di elucubrazioni e sottigliezze i propri tratti distintivi, necessita di essere contestualizzato e posto su una precisa linea temporale, ripensando a mente fredda alle tappe compiute prima di allora dal gruppo floridiano. Un percorso avviato dall’omonimo esordio del 1990, accecante e fondamentale come solo i vari “Altars of Madness”, “Left Hand Path” o “Slowly We Rot” hanno saputo esserlo nelle cronache del genere, e proseguito due anni più tardi dall’inarrivabile “Legion”, estremizzazione concettuale e stilistica di una formula che già in quel momento poteva essere considerata unica. Una pietra miliare che ancora oggi, a distanza di tre decenni, lascia a bocca aperta per la sua malvagità strabordante e, soprattutto, per un quoziente tecnico da infarto messo al servizio di brani sempre e comunque impattanti e violentissimi, tanto che – col senno di poi – non è un’eresia vederne il contenuto come una delle prime manifestazioni del filone techno-death. Paradossalmente, è proprio da questa caratteristica, riflesso di un’audacia e di una confidenza nei propri mezzi mai più replicate in futuro, che inizieranno i primi screzi fra il cantante/bassista e la famigerata coppia d’asce formata dai fratelli Eric e Brian Hoffman. “Durante il tour di ‘Legion’ suonavamo, come ovvio, parecchi brani da quel disco. Poi però, nei tour successivi, gli Hoffman hanno iniziato a dire che venivano da schifo e che era tutta colpa di Glen. Quest’ultimo diceva la stessa cosa, accusando però i fratelli. Così, con il passare degli anni, abbiamo smesso di suonarli, perchè nessuno aveva più voglia di litigare”. Così raccontava, in un’intervista a Metalitalia.com del 2008, il batterista Steve Asheim, e da questo punto è necessario ripartire per affrontare, finalmente, la tracklist del full-length numero tre.
Un’intensa carrellata di episodi (leggenda narra che il disco sia stato registrato due volte, venendo suonato più ‘lentamente’ la seconda per raggiungere un minutaggio adeguato) in cui la semplificazione delle strutture, rispetto alla sbornia di evoluzioni e cambi di tempo del predecessore, è a dir poco lampante, nell’ottica di una proposta compatta, rocciosa, tirata a lucido. E qui ci ricolleghiamo alla nostra frase d’apertura, perché proprio come i Four Horseman riuscirono a trovare la quadra perfetta tra ingegno, orecchiabilità e potenza nel suddetto capolavoro del 1986, alla stessa maniera i Deicide confezionarono un’opera scandita dall’inizio alla fine di hit irripetibili, cesellate con fare minuzioso per stamparsi a fuoco (infernale) nella mente e risultare digeribili anche a chi – magari – non era totalmente addentro la barbarie del genere. Per farlo, il quartetto andò a pescare direttamente dalla schiettezza e dalla (relativa) semplicità del debutto, avvalendosi però del bagaglio di esperienza acquisito nel lustro alle proprie spalle; ciò che ne scaturì, fra le mura dei leggendari Morrisound Recording sotto la supervisione del noto produttore Scott Burns (Cannibal Corpse, Death, Obituary), fu una delle massime applicazioni della cosiddetta forma canzone all’Arte del death metal, americano e non.
Brani in cui ogni riff è un evento e la struttura dei pezzi, fondamentalmente, si rifà a quella dei grandi classici metal/hard rock dei decenni precedenti, con un’alternanza di strofe e ritornelli tanto rassicurante quanto efficacissima. Con simili presupposti, il guitar work slayeriano degli Hoffman e le impalcature ritmiche di Asheim, un metronomo umano mai abbastanza lodato per il suo stile solido e funzionale, ebbero la strada spianata per fare faville e confezionare alcuni dei loro passaggi più iconici e memorabili: dall’attacco della titletrack (quale deathster non lo ha mai canticchiato?) al refrain di “They Are the Children of the Underworld”, dalla dichiarazione di guerra di “When Satan Rules His World” alle becere invettive di “Kill the Christian”, guarda caso tutti cavalli di battaglia nelle odierne setlist della band, “OPTC” rivela quasi una natura da greatest hits, senza esserlo nel senso stretto del termine. Va però precisato che, da autentico capolavoro, il suo potenziale non si esaurisce nei colpi da novanta più celebri e osannati, con una “Christ Denied” a rientrare di diritto nella top 5 (ci sbilanciamo!) dell’intero catalogo dei Deicide; asciutta, brutale, concisa, ulteriormente incattivita dalla performance di un Benton cupo e indiavolato che, proprio in quell’anno, forgiò definitivamente la propria vocalità, in una successione di growling e screaming vocals lucida e ferocissima. Un episodio – in definitiva – semplicemente perfetto, manifesto di un’idea di death metal radicata in un senso di eccesso e pericolo che l’iconico artwork, raffigurante Cristo dopo un esame autoptico grondante sangue (rigorosamente censurato sulla front cover), restituisce anche da un punto di vista grafico.
Come detto, in tanti videro in questa scelta stilistica un passo indietro rispetto alla bolgia infernale di “Legion”, se non addirittura l’inizio della fine (discorso poi ripetuto per il thrashoso “Serpents of the Light” del ‘97), ma anche al netto dei gusti personali e delle ragioni interne che portarono i Deicide a scrivere la loro opera più ‘pop’, è impossibile non tenere conto del mix di classe, efficienza e personalità di questi ventotto minuti di musica. Il ’95 estremo, oltre che dai vari “Domination”, “Pierced from Within”, “Slaughter of the Soul” e “Symbolic”, non può prescindere da “Once upon the Cross”. Una delle pagine più efferate e catchy della nostra musica preferita.