8.5
- Band: DEMIGOD
- Durata: 00:47:44
- Disponibile dal: 01/11/1992
- Etichetta:
- Drowned Productions
Spotify:
Apple Music:
Così poco costanti nella qualità e nella regolarità delle pubblicazioni dall’essere spesso considerati una ‘meteora’ più che una ‘cult band’, i Demigod possono comunque vantarsi di avere dato alle stampe uno dei migliori album death metal europei con il debutto “Slumber of Sullen Eyes”. Incastonato fra gemme underground di simile caratura come “World Without God” dei Convulse e “Nespithe” dei Demilich, il primo full-length dei Demigod è infatti un altro fulgido esempio della personalità di un circuito, quello death metal finlandese, che, per quanto sotterraneo e all’epoca non molto promosso dalla critica, nei primissimi anni Novanta si estendeva per tutta la nazione in una folta rete di band e progetti che per vastità e fermento aveva poco da invidiare a quello della vicina Svezia. Esordendo ufficialmente nel 1992 dopo alcuni demo molto apprezzati, il gruppo non solo si pone fra i succitati Convulse e Demilich a livello prettamente cronologico, ma si mette in luce anche per una proposta che, almeno a distanza di quasi tre decenni dalla sua comparsa, può essere descritta a grandi linee come una via di mezzo tra il primitivismo dei primi e l’esuberanza e la creatività dei secondi.
L’abilità dei Demigod difatti sta non tanto nella crudezza della resa sonora o nella ricerca di eccentricità e nella creazione di curiose stratificazioni, quanto nel dosare con personalità tutti questi elementi, calibrando con attenzione spazi e profondità, e sapendo di continuo creare quella tensione nell’ascoltatore che lo porti puntualmente a presagire l’arrivo di qualcosa di imminente e indefinito. I brani si avvalgono tanto di quella pesantezza venata di doom tipica del death metal finnico, quanto di un costante e solerte dialogo fra le chitarre, abili nel fare riecheggiare motivi sinistri che penetrano subdolamente nella mente, rilasciando inquietudine e un senso di magica sospensione senza ricorrere a tecnicismi forzati o a chissà quale astrattismo. L’intesa fra l’elegante comparto melodico e una base ritmica poderosa, spesso incentrata su riff quadratissimi e un lavoro di doppia cassa davvero penetrante – elementi, questi, che possono anche ricordare Grave o Bolt Thrower – porta le canzoni a oscillare fra momenti da puro headbanging e altri all’insegna di estatico misticismo e di inquieta angoscia, procedendo in modo avvolgente come l’inverno finnico, con il growling del chitarrista/cantante Esa Lindén in primo piano a evocare spazi profondi e contorsioni dello spirito. Un songwriting avvincente, che, prendendo le mosse da certe sonorità underground del periodo, riesce dunque a fondere sostanza e inaudita potenza death metal con una vibrante espressività sotto forma di liquide dilatazioni, oscura poesia decadente e una ricerca di atmosfera che a tratti sa anche scomodare esplorazione cosmica e sensoriale.
La base della formula di formazioni oggi molto celebrate come Spectral Voice, Krypts o Cruciamentum si trova insomma nel sound intenso ma sospeso, groovy ma dinamico, di “Slumber of Sullen Eyes”, il quale, anche a distanza di ventotto anni dalla sua pubblicazione, sa confermarsi un ascolto estremamente suggestivo, in grado di insinuarsi nella mente con quella forza propria delle opere genuine, oltre che innovative.