9.0
- Band: DEPRESSIVE AGE
- Durata: 00:44:54
- Disponibile dal: 30/03/1992
- Etichetta:
- GUN Records
Spotify:
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Malinconia, tristezza, problemi esistenziali, non sono probabilmente le prime tematiche che viene in mente di accostare a un gruppo thrash metal. Sono invece pilastri delle liriche firmate dai tedeschi Depressive Age, compagine autrice di quattro album a inizio anni ’90, con una storia abbastanza particolare alle spalle. I cinque provengono infatti da Berlino Est, dove scorre con qualche difficoltà la loro esistenza musicale e personale, vissuta fra il 1984 e il 1988 sotto l’egida di Blackout e solo successivamente approdata al moniker definitivo di Depressive Age. Quei tempi critici, il processo di adattamento alla nuova condizione di Germania unita, la possibilità di spostarsi nell’Ovest, si riflettono in uno stile incasellato per comodità nel progressive thrash, ma costituito da caratteristiche peculiari e poco ortodosse. A dare un tocco unico ed estremamente affascinante sono le chitarre acustiche, dalle coloriture darkeggianti, utilizzate attraverso partiture sfumate ed elaborate; in nuda solitudine, inframezzate dalla potenza di quelle elettriche oppure in contemporanea contrapposizione, contemplano singolari venature cantautorali e influssi tipici del folk teutonico. L’approccio filosofico alle linee vocali, squillanti e umbratili, porta a cullarci in un tenue grigiore, a metterci di fronte a umori depressi, una cupezza che potremmo immaginarci di trovare in un album post-punk, gothic, doom, non in un contesto che rimane chiaramente figlio del thrash.
Il riffing granitico e particolareggiato non guarda affatto al sound della ‘sacra triade’ Kreator-Sodom-Destruction, ma non ha nemmeno forti affinità con altre correnti del thrash europeo vicine al metal classico, oppure virate su un arzigogolato techno-thrash. Piuttosto, quando le ritmiche fanno la voce grossa, si sterza verso la precisione e il rigore dei Metallica dei primi quattro album. Nell’erigere e scolpire muraglie chitarristiche mastodontiche, i Depressive Age non temevano rivali, ma evitavano qualsiasi rigidità, mettendo in mostra estro melodico e la capacità di scrivere canzoni vere e piene di sentimento. Paradigmatica dell’intero lavoro è la potenziale hit “Innocent In Detention”, dove il cantante Jan Lubitzki racconta la sua esperienza in prigione, catturato mentre stava tentando di passare nella zona ovest di Berlino. L’introduzione acustica in questo caso dura a lungo, la voce descrive morbida e sofferta il trauma di quanto accaduto, il comparto strumentale cresce di intensità dando libero sfogo alle emozioni del cantante e il thrash esplode vigoroso solo entrando nel refrain. Oltre metà brano, poi, portata al massimo la drammaticità, i Depressive Age svoltano e danno libero sfogo alle doti tecniche maturate nei molti anni assieme, mettendo in fila stacchi durissimi e accelerazioni brucianti. “First Depression” non porta con sé gli attributi del debut, bensì è opera rifinita, che presenta soluzioni ingegnose, sviluppate alla perfezione, poste nei punti più corretti affinché il potenziale della singola canzone possa deflagrare compiutamente. Pensiamo ad esempio alla preziosità dei ricami elettroacustici di “Never Be Blind”, traccia breve quanto nervosa, coi suoi cori martellanti, gli accenni psicotici nella voce di Lubitzki, le chitarre che si avvitano in parentesi inconsuete, per riprendere a spingere decise pochi istanti dopo. Senza che ciò comporti lo sfilacciamento delle strutture e un senso di scarsa coesione.
In alcuni casi, il galoppare impetuoso della sezione ritmica e la concitazione vocale – pensiamo alla trascinante “Beyond Illusions” – hanno punti di contatto con le scorribande power metal del decennio precedente, che nel caso dei Depressive Age sono solo punti di facile aggancio per portarci rapidamente a fasi più sghembe e indecifrabili. Le soliste si inventano cose notevolissime, piccole magie che non sarebbero state male sulle migliori pubblicazioni dei connazionali Mekong Delta e Sieges Even. Alcuni botta e risposta chitarristici molto intricati e l’uso di voci dal taglio sci-fi portano alla mente anche Realm e Toxik, ma ve le lasciamo, queste, come semplici suggestioni, per indurvi alla curiosità di tentare il primo ascolto al disco. Quello che infine rimane alla memoria e consegna, per chi scrive, all’immortalità “First Depression” è la qualità intrinseca dei pezzi, perché ben pochi thrasher saprebbero scrivere una “No Risk” o una “Autumn Times”, che per come coniuga impatto, complessità e lirismo si aggiudica la palma di miglior episodio in tracklist. Poco celebrato, difficile da reperire in formato fisico, l’esordio dei berlinesi – cui seguiranno altri dischi molto validi, in particolare l’ultimo, “Electric Scum”, un brillante esempio di meticciato fra thrash e sonorità alternative del periodo – va assolutamente riscoperto dai fanatici del genere nella sua versione più visionaria e da chi, in generale, apprezza quegli artisti capaci di annettere elementi avanguardistici in un impianto classico.