7.5
- Band: DER WEG EINER FREIHEIT
- Durata: 00:48:06
- Disponibile dal: 23/03/2015
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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Der Weg Einer Freiheit. “Percorso della libertà”. Un camminamento irto di pericoli, irregolare, precario. Si soffre, ci si macera, si corre e ci si ferma, cercando di non arretrare. Proviamo a capire se questi musicisti sono in grado di farcela a conquistarsela, questa benedetta libertà. In questo caso, libertà dalle fonti d’ispirazione e affermazione del proprio spirito identitario. Terzo disco per i tedeschi, selezionati dalla Season Of Mist per diventare un nome di punta del black metal contaminato ed evoluto. Sulla scia dei Downfall Of Gaia, non a caso loro attuali compagni di tour, i ragazzi di Wurzburg plasmano un lotto di pezzi fosco e corrucciato, dove l’etichetta di post-black metal può trovare una sua connotazione molto netta, poco intellettuale e legata con lacci strettissimi sia alle avventure di gruppi come Mayhem e Gorgoroth, sia a gente del calibro di Cult Of Luna e The Ocean. Senza dimenticare il crust metallizzato diffusosi a macchia d’olio sia in Europa che dall’altro lato dell’oceano. Mondi che hanno da tempo imparato a dialogare e interagire, a generare figli e figliastri in molti casi raccapricciantemente interessanti, in altri noiosamente trascurabili. “Stellar”, con una copertina un po’ stereotipata a tema eclisse – guarda caso, l’album è uscito tre giorni dopo l’oscuramento solare del 20 marzo – ai primi ascolti provoca una certa irritazione. Il motivo è presto detto: le aperture old-school black metal si assomigliano un po’ tutte, mitragliate monocordi che più true non si potrebbe, prese di peso dalla vecchia scena norvegese e risuonate con una produzione aggiornata e contestualizzata ai dettami “post-“. La turgidezza delle chitarre e la loro austera minacciosità ricordano infatti il settaggio dei suoni di “The Beyond” dei già citati Cult Of Luna. Il fastidio, però, tende a scemare con gli ascolti, a cui veniamo invitati intanto dalla ferocia belluina dei quattro nelle partiture più veloci e accanite che, al netto dell’omogeneità di fondo, ci dicono che il black metal qua non è un pretesto modaiolo, ma uno stile vissuto e professato con genuina abnegazione. In seconda istanza, l’assemblaggio delle singole tracce, anche questo tutt’altro che originale o sorprendente, fa sì che esse siano sempre accattivanti, fluide, segnate da un’alternanza di umori e atmosfere familiari, ma interpretate con grande trasporto e la voglia di lasciare il proprio segno indelebile, non di unirsi al gregge. “Stellar”, in questa sua prevedibilità di gran classe, segna anche, più di altri dischi del medesimo filone, l’avvenuto processo di standardizzazione del black metal crusteggiante e sedotto dal post-rock. Suonerà blasfema una tale presa di posizione, ma a ben vedere per questo ibrido black metal bisogna fare lo stesso discorso che si utilizzerebbe con un gruppo hard rock o heavy metal classico. Smetterla quindi di desiderare l’invenzione che cambi le regole del gioco, e valutare semplicemente (fosse poco…) la qualità intrinseca delle singole composizioni, il loro valore in sè e per sè. Scopriremmo allora, con i Der Weg Einer Freiheit, di trovarci davanti a una band tostissima, preparata, che si può permettere, come avviene in “Eiswanderer”, di far jammare assieme The Secret, 1349, Cult Of Luna e Harakiri For The Sky, per dar vita a un pandemonio dove il buio è dominante, ma stacchi ambient (circa a metà) e arpeggi appena accennati (la chiosa) fanno scorrere qualche lacrima fra gli artigli della belva. Bestialità e feeling drammatici convivono nella voce scartavetrante e compromessa, distrutta dall’angoscia, segnata da uno stato nervoso in bilico su un pozzo di follia di Nikita Kamprad, l’elemento più estremo anche quando i compagni tratteggiano quadretti melanconici più eterei, avvalendosi anche di un delicato pianoforte, cercando allo stesso tempo di non rasserenare troppo le ambientazioni. E se “Verbund”, per durata, spina dorsale e piglio potrebbe arrivare direttamente da “Darker Handcraft” dei Trap Them, il meglio questi tedeschini (età media sotto i venticinque anni) lo esalano ai capi opposti della tracklist. In fondo, quando sorpassano i dieci minuti con “Letzte Sonne”, ammaliano per come le chitarre si abbattono su di noi con impulsività e cesello di melodie colossali e frastagliate, ben note per i richiami shoegaze, eppure eludenti la banalità perché guardano a un lato oscuro, un pessimismo di fondo che non ammette redenzione. Poi si intromettono scampoli di ambient e violini, a ricreare a una tranquillità figlia della demoralizzazione e della rassegnazione, che porta a una conclusione stillante sconfitta. All’inizio, con “Repulsion”, abbiamo il nostro piccolo rimpianto per quanto poteva essere e non è stato fino in fondo: il timido e pallido cantato pulito a corredo dei primi minuti quasi di musica da camera, spiazzante nel suo tenue grigiore, avrebbe meritato maggiore spazio. Un suo uso diffuso potrebbe in futuro ampliare il ventaglio espressivo di questi talentuosi musicisti, che con “Stellar” hanno già raggiunto traguardi importanti e possono guardare con fiducia al futuro.