7.5
- Band: DESPISED ICON
- Durata: 00:36:21
- Disponibile dal: 31/10/2025
- Etichetta:
- Nuclear Blast
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
I picchi toccati dai Despised Icon con opere come “The Healing Process” (2005) e “The Ills of Modern Man” (2007) sono e resteranno irripetibili a livello di personalità, impatto e capacità di influenzare l’andamento della scena ‘modern’ death metal, ma ciò non toglie che anche oggi, lasciata alle spalle la fase giovanile, il gruppo di Montréal sappia esprimersi in modo fresco e incisivo, guardandosi bene dal tornare in studio senza avere nulla da dire o per timbrare il cartellino.
Non a caso, anche tenendo conto della pausa imposta dalla pandemia, ben sei anni separano questo “Shadow Work” dal precedente “Purgatory”, segno di come Alex Erian e compagni – superati i quaranta e dismessi i panni di touring band a tempo pieno – abbiano preferito lavorare con calma per confezionare un disco che fosse sia al 100% riconducibile al loro moniker, sia portavoce di qualche novità e del desiderio di mettersi alla prova dal punto di vista artistico.
Introdotto dal solito, superlativo dipinto di Eliran Kantor, il settimo full-length dei deathcorer canadesi (terzo dalla reunion avvenuta nel 2014) ne immortala infatti le gesta sotto una luce tanto familiare – e non potrebbe essere altrimenti, con uno stile riconoscibile fra mille all’interno del circuito – quanto in grado di gettare ombre inedite sul contenuto della tracklist, specie all’altezza di alcune parentesi particolarmente fredde e cupe, in odore di black metal.
Ovviamente, siamo lontani dalle contaminazioni ‘un tanto al chilo’ di certi esponenti della nuova guardia: qui, quando chiamate in causa, le suddette influenze vengono sempre inglobate in modo organico e spontaneo nel corpo della proposta, ricordando piuttosto l’operato di altri veterani come Aborted o Cattle Decapitation e guardandosi bene dal ripiegare su barocchismi sinfonici già datati nel 2002.
A tratti – vedasi parti di “Death of an Artist”, “The Apparition” o di “Reaper” (con ospiti Scott Lewis dei Carnifex e Tom Barber dei Chelsea Grin) – è come se il sestetto avesse voluto portare il suo suono tecnico, muscolare e ignorante in gita nelle foreste innevate del Canada, con risultati che, sebbene non possano sapere di idea rivoluzionaria o sconvolgente, sanno farsi comunque apprezzare per il loro grado di efficacia, oltre a sottolineare la volontà della band di non ripetere pedissequamente i compiti passati.
E come detto, al fianco di queste digressioni più tetre e maligne dello standard, tutto ciò che ha saputo rendere grande lo stile del gruppo nell’arco di due decenni, fra breakdown, gang vocals e soluzioni mutuate indifferentemente dal repertorio di Hatebreed e Suffocation, Cryptopsy e Biohazard, Madball e Dying Fetus, in una miscela di aggressività e dinamismo pressoché perfetta in termini di equilibrio e capacità di illustrare ciò che questo sottogenere dovrebbe sempre essere: vero death metal e vero hardcore fusi in modo totale e indissolubile, come in un patto di sangue per la vita.
Il frutto di questi sforzi è un lavoro onesto, intellettualmente e concettualmente, in primis verso l’indole ‘crossover’ dei suoi autori; un lavoro che, se è vero che nel finale perde un po’ di slancio rispetto all’inizio, con un paio di episodi che poco tolgono e poco aggiungono al valore complessivo, sa comunque colpire nel segno grazie alla sua energia poderosa e alla sua volontà di trasformare la negatività in qualcosa di costruttivo.
Anche nel 2025, il processo di guarigione continua.
