8.0
- Band: DESPITE EXILE
- Durata: 00:43:20
- Disponibile dal: 02/12/2022
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Dalle lande friulane – già terra natale, tra gli altri, di Slowmotion Apocalypse, Raintime e Fake Idols – tornano alla carica i Despite Exile, che i lettori più attenti ricorderanno per un trittico di album tra i migliori del deathcore tricolore negli anni ’10 , nonché per le numerosi apparizioni dal vivo di spalla ai grossi nomi del genere.
Esaurito il contratto con la Lifeforce Records e dopo un’attesa prolungata dalla pandemia, la formazione di Udine si ripresenta ai blocchi di partenza con un’inedita formazione a sei elementi (di cui ben tre chitarre) e una produzione DYI ad opera del cantante Jei Doublerice, che nulla ha da invidiare agli act più quotati della scena. Senza arrivare ai fasti degli ultimi Lorna Shore, ormai ‘ingiocabili’ per chiunque, il post-hardcore dei nuovi Despite Exile si pone fin dall’iniziale “Riven Mirrors” come un perfetto esempio di deathcore di ultima generazione, arricchito da qualche arrangiamento più melodico e da una tecnica superiore alla media – dal mostruoso batterista Simone Cestari (la cui apparente seraficità dal vivo contrasta con la raffica di bpm inflitti alla cassa con gli arti inferiori) al già citato tridente di chitarre, le cui trame vanno ben oltre i canonici breakdown spezzacollo.
Un ottimo esempio in questo senso è “Scepter”: cinque minuti di violenza ritmica resi ancora più affilati da arrangiamenti melodici sullo sfondo e i cambi di registro del già citato Jei, a suo agio non solo in growl/scream ma anche occasionalmente sul pulito, sempre utilizzato per aggiungere sfumature al pezzo (come ad esempio nel ritornello di “After The Deluge”) senza però mai scadere nel classico momento strappamutande. Anche brani più ‘canonici’ come “Custodian” o “Sunder”, inquadrabili nei canoni del deathcore/metalcore, dimostrano di avere una marcia in più proprio per la tecnica mai fine a se stessa e la cura maniacale negli arrangiamenti, il cui climax è rappresentato dalla strumentale “From The Black Beyond”; questa funge da trampolino di lancio per il melo-djent-core di “A Pale Glimmer Of Light” e la lornashoresca “Lament”, prima del finale esoterico affidato title-track strumentale. Peccato solo che l’uscita pre-natalizia li faccia arrivare ‘corti’ nelle poll di fine anno, ma se amate il deathcore più tecnico di Whitechapel, Enterprise Earth e Signs Of The Swarm (per tacere dei già menzionati Lorna Shore) non fatevi scappare “Wound”, ennesima conferma di come anche nel genere forse più hot del momento l’Italia possa ambire ad un posto in Champions League.