7.5
- Band: DESTRAGE
- Durata: 0:43:20
- Disponibile dal: 16/09/2022
- Etichetta:
- Century Media Records
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Ciò che non ti uccide ti fortifica. Nel caso dei Destrage gli ultimi anni non devono essere stati facili, tra lockdown ‘all’italiana’ (tra i più restrittivi nel mondo occidentale), la separazione (se pur amichevole) dallo storico bassista Gabriel Pignata e infine lo split dalla Metal Blade, etichetta che aveva accompagnato gli ultimi tre album in studio. Nondimeno Paolo, Mat, Ralph e Fede hanno saputo fare fronte comune alle avversità e così, forti di un contratto con la 3Dot Recordings (etichetta dei Periphery), hanno rilasciato un nuovo disco, “SO MUCH, too much”, che come lascia intendere il titolo non lesina sorprese (ma, conoscendoli, non ci aspettavamo niente di meno). La partenza fulminante con “A Commercial Break That Lasts Forever” mette subito in chiaro la follia del songrwiting, e “Everything Sucks And I Think I’m A Big Part Of It” alza il livello a undici (come l’amplificatore degli Spinal Tap) con il suo mix micidiale di furia ritmica – a proposito: qualcuno metta un bollino DOP a Federico Paulovich, patrimonio della batteria tricolore – e rallentamenti, in un frullato di Periphery e Code Orange shakerati con l’avanti veloce. L’apice in termini d’imprevedibilità è tuttavia rappresentato dalla doppietta “Venice Has Sunk” e “Italian Boi”: se la prima è un saliscendi emotivo impreziosito dal basso funky di Federico Malaman (qui in veste di ospite: un indizio sul nuovo bassista?), la seconda è un’ironica rappresentazione del maschio italiano che mescola abilmente parti cazzone (dai synth quasi disco al già leggendario verso “Che cazzo dici fra/what are you talking about”) alla consueta prova mostruosa a livello strumentale, sottolineata ad esempio da un assolo squisitamente rock’n’roll o dall’outro in pieno stile djent. Se “Private Party” fa notizia più per la presenza di Devin Townsend, ma a conti fatti risulta una festa meno riuscita di quelle offerte finora per effetto di un ritornello fin quasi banale, la successiva “Sometimes I Forget What I Was About To” (una sorta d’interludio) apre la strada ad un lato B più sperimentale nella sua semplicità. Consapevoli del fatto che non si possa vivere di soli fuochi d’artificio (alla lunga, possono stancare) il prosieguo della tracklist rallenta un po’ il ritmo virando verso una forma canzone quasi tradizionale (“Is It Still Today”), tra intermezzi strumentali simil-fusion (“Rimashi”) e finanche una ballad beatlesiana (“Everything Sucks Less”): avendoci abituati ad ogni tipo di stranezza fa paradossalmente più impressione sentirli suonare ‘normali’, ma anche quando i BPM tornano a spingere (il rock’n’djent di “An Imposter” e “Vasoline”) si avverte un tono più edulcorato rispetto al lato A. Se tutto il disco fosse stato al livello dei primi pezzi probabilmente staremmo parlando di un altro Top Album come fu “AYKM?N”, ma nonostante ciò “SO MUCH. too much” resta comunque ‘tanta roba’, confermando il quartetto meneghino come uno dei migliori esponenti della scena metal moderna tricolore.