7.0
- Band: DESTRUCTION
- Durata: 00:46:40
- Disponibile dal: 09/08/2019
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Warner Bros
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A febbraio, in quel di Fontaneto d’Agogna, il Killfest Tour portò con sé, in un’unica data, Overkill, Flotsam & Jetsam e Destruction. Assodato il terremoto sonoro che venne riversato dalle band sui presenti, le due formazioni americane erano, tra le altre cose, fresche fresche di release: “Wings Of War” per il gruppo di Bobby, “The End Of Chaos” per il combo di Phoenix. Due album portentosi, soprattutto il primo, che confermarono uno stato di forma davvero invidiabile per entrambi i gruppi d’oltreoceano. Da parte loro, invece, i Destruction si presentarono on stage con una formazione rinnovata e pure ampliata: dopo aver reclutato alla batteria Randy Black, ex Annihilator e per undici anni schiacciasassi dei Primal Fear, ad affiancare il buon Mike arrivò un secondo chitarrista, il praticamente sconosciuto Damir Eskic.
In realtà, anch’essi erano di ritorno da una sala di registrazione. Presso i Little Creek Studio di Ornalingen, Svizzera, insieme al produttore VO Pulver, stavano, infatti, ultimando il nuovo “Born To Perish” il quale, oltre ad un’ovvia curiosità, destata proprio dal rapido rinnovamento di formazione, lasciava dietro di sé anche una scia di forte scetticismo. Se in sede live, infatti, i Nostri sono tutto sommato una garanzia, da qualche anno ormai, dallo studio non arrivano più grandi colpi di cannone ma semplici riproposizioni di quanto fatto in precedenza (“Under Attack”) o addirittura, delle vere e proprie rivisitazioni di vecchi brani (“Thrash Anthems II”).
E allora: curiosità soddisfatta positivamente o dubbi trasformatisi in triste realtà? Diciamo che se da una parte l’innesto di Eskic ha decisamente migliorato la proposta globale dei Destruction, inserendo passaggi melodici e studiati di sicuro interesse, dall’altra, la parola capolavoro può tranquillamente rimanere nel cassetto. La band teutonica arriva all’album numero sedici in carriera con un prodotto sì granitico, poderoso e più ricco di spunti rispetto al passato, ma, purtroppo, non riesce ancora a marchiare a fuoco la casella ‘top’, necessaria a farti esclamare il più classico dei ‘cazzarola’… e ci fermiamo qui.
A proposito di tradizioni, basta il rullio posto in apertura per capire sin da subito che ci troviamo di fronte ad un tipico lavoro targato Destruction: la title-track rispecchia in pieno l’aggressività del cingolato guidato dalla storica coppia Schmier & Mike e dei due avvoltoi assetati di sangue posti in copertina. Possono anche non piacere, possono peccare di poca fantasia ma, quando pigiano sull’acceleratore, i thrasher tedeschi non sono secondi a nessuno. Il problema piuttosto sorge quando la struttura di un brano si ricalca nei pezzi a venire, creando così un ‘copia-incolla’ monotematico: “Betrayal”, “Rotten” e “Filthy Wealth”, pur con qualche variante, hanno molto da spartire con “Born To Perish”, soprattutto nell’impostazione del refrain. Si distacca invece da questo primo binario monolitico “Inspired By Death”, supportata nelle varie strofe dalle nuove linee chitarristiche intarsiate dallo stesso Eskic. Una sventagliata d’aria fresca che si respira a pieni polmoni in “Butchered For Life”, in cui i consueti ritmi tellurici si alternano a stacchi più soft, dove anche una certa vena progressive entra in gioco. Un episodio singolare prima di un’autentica trapanata negli stinchi, migliore rispetto a quelle sparate ad inizio album: “Tyrants Of The Netherworld” viaggia a mille lungo le bacchette impazzite di Randy Black, mentre l’ugola di Schmier, decisamente in palla, sbraita per tutti i quattro minuti previsti. E se “We Breed Evil”, nel suo replicare lo standard Destruction, si adorna nuovamente dei riff di Eskic, “Fatal Flight 17” si fa notare per un piglio maggiormente heavy. Chiude il lotto una più che superficiale “Ratcatcher”.
Tirando le somme, “Born To Perish” è un album che necessita di vari ascolti per fare apprezzare al meglio la nuova veste della band teutonica: non si tratta come detto di un capolavoro, ma un sette pieno (o qualcosa in più, se vogliamo) lo merita tutto. Se con “Under Attack” i Nostri avevano denotato chiari sintomi di stanchezza, il nuovo album sembra dare nuove chance al gruppo tedesco.