9.0
- Band: DEVIN TOWNSEND
- Durata: 01:05:29
- Disponibile dal: 31/01/2006
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Audioglobe
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“I am a ping-pong”, dice di sé il bald mosher alla vigilia dell’uscita del nuovo lavoro targato DT Band, e dopo tutto mai espressione più felice fu coniata per descrivere efficacemente il modo di procedere del suo percorso musicale! Nella continua risacca delle sue emozioni, infatti, le creature che nascono al di fuori della sfera Strapping Young Lad sono il momento di luce dopo quello oscuro della ferocia, le prime lo sviluppo a colori del negativo delle seconde. E allora tocca prepararsi, nell’ascolto di “Synchestra”, a rimbalzare tra le pareti del cranio di quest’essere umano fatto di domande antiche e stati d’animo contrastanti, spesso estremi… e chi negli anni ha seguito la carriera di Devin Towsend si renderà conto che questo lavoro in qualche modo chiude una volta per tutte il lungo capitolo apertosi nel ’93 con l’esordio accanto a Steve Vai. Oggi, molte tessere di questo mosaico assai complesso tornano infine al loro posto. Il disco si apre con “Let It Roll”, la prima delle due lunghe intro, in cui un semplice, pulito intreccio di voce-chitarra parla di umiltà prima di esplodere “Hypergeek”, detonazione ad alta velocità che ricorda da vicino certi momenti del più opaco e sofferto “Physicist”. Con “Triumph” arriva subito uno dei momenti più intensi del disco, con una lunga traccia strettamente imparentata con il feeling di “Terria”, frammentaria e leggera dal sapore vagamente rock, e zeppa di voci che poi lasciano il posto ad uno splendido assolo di sua maestà Steve Vai in persona, che Devin ha chiamato a suonare in questo pezzo proprio per mettere pace tra sé e il passato, in un presente che ne è autentico risultato. Subito dopo “Babysong” – “heavy metal lullaby”, sono parole di Townsend, che è la parte esposta alla luce della “Possessions” di “Alien” – viene a ricordare il bianco di “Infinity”, con un pizzico della tendenza all’eccesso di quei tempi e un momento di riflessione dopo il risveglio di cui parla “Triumph”. Subito dopo, la divertente coppia “Vampolka”/”Vampira” viene ad alleggerire il mood e sguscia fuori come parodia di certi umani atteggiamenti che drammatizzano troppo gli aspetti oscuri della vita, in cui Devin canta come un rocker à la Judas Priest facendo il verso al se stesso degli SYL. Dopo questo momento di transizione torna il tema del risveglio con la strumentale “Mental Tan”, un pastoso e arioso panorama sonoro che porta l’ascoltatore direttamente dentro “Gaia”, per chi scrive forse l’episodio più emozionante dell’intero album, un amalgama di rock-metal senza particolari contorsioni strutturali che dopo un ascolto non c’è più verso di togliersi dalla testa. A questa vibrante canzone seguono le due tracce che portano verso il punto culminante dell’album: “Pixillate”, un lungo grazie gridato al cielo che ricorda le liquide atmosfere di “Biomech” e arricchito nelle linee vocali e nel riffing da richiami di sapore mediorientale, e “Judgement”, che dopo il risveglio e le domande della prima parte del disco rappresenta il momento della risposta, in cui si fa fortissima l’eco di “Terria” e nel cui dilatato avanzare si mescolano il tema di “Mental Tan” e la cadenza di “Pixillate”. “A Simple Lullaby” è infine la canzone che contiene in sé tutte le altre, un caos di sette minuti di voci, preghiere e fuochi d’artificio, il momento di gioia, celebrazione e liberazione prima di “Sunset”, il tramonto, il commiato in cui l’energia si disperde in due minuti caldi e luminosi tra un mormorio di cori e lievi ricami di chitarre e tastiere. “Notes From Africa”, che chiude l’album, riassume infine tutto il cammino lirico e musicale del disco e si oppone a “Love?” di “Alien” con un groove dalla struttura compatta e una melodia singolare che pare Townsend si portasse dietro dai tempi di “Infinity”, e il nome di Salman Rushdie che echeggia fin quando il pezzo non sfuma immergendosi per cinque minuti in un qualche remoto angolo di giungla tropicale. Il disco finirebbe tecnicamente qui se non spuntasse fuori una ghost track, due minuti e mezzo dell’ironia di “Accelerated Evolution” piazzati strategicamente alla fine che faranno sorridere o scuotere il capo, per una postilla che negli album di Townsend da qualche anno a questa parte non manca mai: vietato prendersi troppo sul serio.
“If you say it’s up to me to make the call
well I would say: sunshine and happiness for all!”
Poetico, denso, massiccio e tuttavia fruibile. Da ascoltare dall’inizio alla fine, per chi scrive la riuscita summa di tutti i lavori degli ultimi dieci anni: un disco che, per questo musicista, chiude un’era.
E il futuro? Tutto da scoprire, crediamo. Staremo a vedere.