5.0
- Band: DIAMOND HEAD
- Durata: 01:00:55
- Disponibile dal: 20/11/2020
- Etichetta:
- Silver Lining
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Ci sono pilastri artistici che non andrebbero mai toccati, né tantomeno scalfiti: ogni tentativo di modifica, rivisitazione o addirittura abbellimento, finirebbe inevitabilmente in un più che scontato insuccesso. Pregi e difetti modellati allora su quella creatura avevano comunque un perché ben preciso: scelte giustificate che hanno poi definito la sua notorietà. Voler dunque rivedere, anche in chiave moderna (così, per rimanere al passo coi tempi) una macchina semplicemente perfetta, è un rischio più che azzardato. E a tentare miseramente la sorte sono stati questa volta i Diamond Head i quali, per celebrare al meglio il quarantesimo anno del superbo “White Album”, poi rinominato in “Lightning To The Nations”, pietra miliare della New Wave Of British Heavy Metal, hanno pensato bene di registrarlo nuovamente con il timbro del 2020 ben impresso in copertina. Un’opera che difficilmente troverà consensi tra i fan della band britannica: e se i supporter della prima ora si tufferanno immediatamente sulla propria mensola per afferrare il vinile datato 1980 e spararlo in cassa così da coprire le ‘nuove’ note, anche gli adepti più recenti storceranno parecchio il naso di fronte ad una manovra rievocativa a dir poco sbandata.
Se infatti “Lightning To The Nations” di quarant’anni fa aveva un fascino tutto particolare, figlio del suo tempo, frutto di una produzione non certo sopraffina ma che per questo lasciava ancor più spazio alla libertà di espressione dei quattro interpreti, la versione duemilaventi della titletrack riesce a perdere l’intera spontaneità accumulata in quattro minuti: iper-pompata, assordante e pertanto piatta e poco convincente. Da un brano quasi teatrale e vibrante si è passati ad un pezzo artificioso. E’ questa una prima differenza tra il primo dei Diamond Head ed il suo omonimo moderno. Un calo di personalità sonora che pone più di un dubbio sull’utilità di una simile release. Proprio nell’anno in corso siamo stati diretti testimoni di altre produzioni, sicuramente commerciali ma comunque altrettanto valide, atte a celebrare al meglio superbi capolavori del passato (vedasi per il cinquantesimo di “Paranoid” o per il compleanno numero quaranta di “Ace Of Spades”). Non era dunque possibile seguire una linea di commemorazione analoga? Prendiamo atto delle buonissime intenzioni di fondo, giustifichiamo la volontà di omaggiare il glorioso album ma non comprendiamo la forma espressiva di tale riconoscimento, proprio per i rischi menzionati ad inizio recensione.
Se aggiungiamo inoltre che di quei quattro Diamond Head non vi è rimasto più nessuno se non il fondatore Brian Tatler, ecco che l’operazione revival/nostalgia si trasforma in un mero tentativo, mezzo sforato, di coverizzare vecchi ed indelebili successi. Perché una nuova versione richiede obbligatoriamente un confronto con il “White Album” originale ed allora cosa dire, per esempio, in merito alla prestazione di Rasmus Bob Andersen? Apprezzate le sue doti canore negli ultimi due album, il paragone con una delle voci più esaltanti della NWOBHM (parliamo di Sean Harris) è alquanto avventato: soave, trasognante quella di Harris, perfettamente a suo agio con le scariche melodiche sciorinate dalla Flyng V di Tatler; in palese difficoltà invece quella di Andersen, soprattutto nei momenti di maggior estensione (ascoltate “The Prince” e capirete). Discorso che si allarga al resto della band, espandendosi a macchia d’olio tra le cinque rimanenti tracce, compresa “Am I Evil” la quale, nella sua globalità, perde di colpo la sua foggia maligna in favore di una cantilenosa ampollosità che, complice ancora una volta la produzione, neppure il tocco di Tatler riesce ad attutire; “It’s Electric” e la conclusiva “Helpless” la cui magnificenza (per chi scrive era la migliore di quel disco) viene alterata da un muro sonoro corroborante e confusionario. A questa stregua, ascoltiamoci piuttosto i tre omaggi promossi qualche anno fa da Lars Ulrich e compagni. A condire infine il viaggio nel tempo dei Diamond Head 2020 abbiamo quattro cover, provenienti da altrettante band epocali: ma nonostante il continuo ed artefatto marchio di produzione imperversi anche in queste ultime battute, il gruppo inglese è tuttavia riuscito a cavarsela, regalandoci prima un adattamento più che discreto della priestiana “Sinner”, quindi nello scambiarsi i favori proprio con i Metallica, replicando senza infamia e senza lode la mitica “No Remorse”. E se “Rat Bat Blue” dei Deep Purple si salva in corner, decisamente meno azzeccato risulta l’arrangiamento della “Immigrant Song” di Page and company.
Tanto, tantissimo rispetto per i Diamond Head, Brian Tatler in primis, ma la storia è storia e, come tale, non va toccata.