9.0
- Band: DIMMU BORGIR
- Durata: 00:56:25
- Disponibile dal: 30/05/1997
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Audioglobe
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Con già alle spalle due album notevoli come “For All Tid” e “Stormblåst”, i Dimmu Borgir approdano, nel 1997, alla fatidica prova del terzo album, quell’”Enthrone Darkness Triumphant” che darà, di fatto, il la per la trasformazione della band con le connotazioni a noi note a tutt’oggi. I precedenti lavori già potevano fregiarsi della parolina ‘symphonic’ attaccata a black metal, ma mai come in questo caso l’opera diviene un fluire nel quale la sinfonia e le orchestrazioni suggellano un connubio fondamentale e inscindibile con gli strumenti classici del genere. Se precedentemente le tastiere creavano atmosfere e dettavano la tonalità delle tele descritte dai norvegesi, è in “Enthrone Darkness Triumphant” che diventano un tutt’uno con una proposta musicale che da qui in poi diverrà sempre più evoluta, barocca, talvolta magniloquente, con risultati anche straordinari (diremmo almeno fino all’ottimo “Death Cult Armageddon”), e componente senza il quale non potremmo immaginarci brani come quelli proposti da qui in poi. Pur apprezzati da molti, i Dimmu sono una di quelle realtà che, in particolar modo a partire dall’espansione da qui in atto (passaggio su major, testi in inglese, il riassetto della proposta – come andremo a vedere a breve, un logo chiaro e leggibile, un restyling in generale che in effetti non può non far pensare ad un interesse verso un bacino d’utenza allargato), ha sempre avuto uno stuolo di detrattori ancorati ad una visione del black legato unicamente alla prima ondata e che i Nostri avrebbero a loro modo ‘tradito’ con il cambiamento del suono (benché altri lavori del periodo con componenti sinfoniche svettanti – a fare un nome, coi dovuti distinguo, “In The Nightside Eclipse” degli Emperor di soli tre anni prima – siano visti con ben altri occhi). Cambiamento dicevamo, ma non alleggerimento; la produzione di Peter Tatgtren è potente, grossa, pesante e ben bilanciata nel far risaltare tutti gli strumenti senza che uno rubi la scena all’altro, perfetta nell’evidenziare la perizia strumentale e le abilità in fase di songwriting e, in ultima analisi, necessaria per gonfiare di steroidi questi Dimmu Borgir 2.0 e proiettarli nel futuro che conosciamo. I brani del resto parlano per loro stessi: “Spellbound (By The Devil) è un’amalgama di violenza serrata, riff grossi e un intermezzo atmosferico da pelle d’oca; “In Death’s Embrace” parte in medias res con un groviglio di piano e chitarre encomiabile sopra un letto di doppia cassa e un accattivante ponte strumentale, e va a sfociare in un finale meraviglioso. Un track-by-track, però, svilirebbe probabilmente l’equilibrio presente in questo disco, perfetto nelle sue dinamiche come nei suoi chiaroscuri, con le parti che grondano melodia e classicismo romantico, come in “A Succubus In Rapture” o nel rifacimento di “Raabjørn Speiler Draugheimens Skodde” (cantata da Silenoz e, insieme al logo originale, presente nel retro del disco, una sorta di link col passato), oppure ancora la violenza raffinata ma inarrestabile di “Relinquishment Of Spirit And Flesh” e “Prudence’s Fall”. Un album che non vede filler e che, se proprio dovesse avere un difetto, potrebbe essere quello di aver messo così tanta carne sul fuoco da dover necessitare di diversi ascolti per comprendere i dettagli più nascosti e a volte preziosi; ma quando una scaletta contiene momenti quali “Tormentor Of Christian Souls”, che assieme al suo blast beat non nasconde velleità di origine thrash , o l’intricata “The Night Masquerade” coi suoi cambi di tempo, di atmosfere, di velocità, c’è davvero poco da dire. Sarebbe pleonastico parlare di tutti i pezzi, dicevamo, ma impossibile non menzionare il brano più iconico del lotto, quello che apre l’album e che ancora oggi resta il più riconoscibile dei Borgir, quella “Mourning Palace” introdotta da una tastiera tanto semplice quanto autoritaria e maestosa, un biglietto da visita con tutti i crismi per divenire instant classic: l’apertura trionfale con lo scream di Shagrath (qui al suo apice), la strofa che viaggia su di un incedere marziale, inesorabile, l’intermezzo che apre le porte ai peggiori incubi, un riff finale che stende l’ascoltatore anche vent’anni dopo la sua uscita e porta ad una chiusura tanto sfacciata quanto da grandeur. Disco fondamentale, punto, con buona pace dei bacchettoni.