7.0
- Band: DISCHARGE
- Durata: 00:33:53
- Disponibile dal: 04/29/2016
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Warner Bros
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Strana situazione quella attuale dei Discharge. Anche un po’ scomoda e disagevole, diciamolo. Riconosciuti unanimemente fra i principali precursori del metal estremo e di tutto il filone dell’hardcore/punk più violento grazie al seminale “Hear Nothing See Nothing Say Nothing”, gli inglesi non hanno saputo ricreare nei dischi successivi la stessa aura di caustica grandezza dell’esordio. Piaccia o no, la nomea di ‘leggende’ i Discharge se la portano dietro quasi esclusivamente per quella scheggia di granata impazzita che era (ed è) l’album del 1982, ancora oggi pietra miliare in termini di brutalità sonora e concettuale, capace tuttora di far rabbrividire per la sua modernità, la dirompente e intransigente carica fustigatoria. E ancora adesso, a ripensare a quando fu rilasciato, assale lo stupore, la meraviglia, viene da pensare che all’epoca questi luridi punkettoni fossero nella disponibilità di una sfera di cristallo, in grado di fargli comprendere quali suoni sarebbero andati di moda almeno quindici anni dopo, così da poterli sparare in faccia agli ascoltatori del periodo, fingendo che fossero interamente farina del proprio sacco. Altrimenti, qualcosa di così avanti, lanciato in un futuro in quel momento difficile da immaginare, proprio non si spiega. Il resto della discografia non ha mai raggiunto gli stessi vertici artistici, la band è stata tacciata quasi subito di tradimento dei sacri dogmi da essa stessa creati a causa del famigerato “Grave New World” e tutto quanto ne è seguito, fra cambi di formazione e assestamenti su un sound sempre potente ma abbastanza prevedibile, non ha smosso più di tanto nel corso degli anni le coscienze. Nemmeno la reunion nel nuovo millennio, l’ingresso alle vocals di Rat dei The Varukers e live nient’affatto fiacchi o insultanti per la propria leggenda hanno potuto fermare lo scivolamento nel cono d’ombra delle vecchie glorie passate di moda: i due dischi pubblicati nel frattempo, l’omonimo del 2002 e “Disensitise” del 2008, non hanno lasciato il segno e sorprende quindi che ora sia una grossa label come la Nuclear Blast a puntare sui vecchi ragazzi di Stoke-on-Trent. Va bene la storia, va bene l’importanza basilare per una miriade di sottogeneri, ma davvero i Discharge hanno ancora qualcosa da dire? La risposta, affermativa, arriva allora dal nuovo full-length “End Of Days”, che vede l’importante avvicendamento al microfono fra il menzionato Rat e il poco conosciuto JJ Janiak, proveniente dai Broken Bones. Un classico cantante di genere, un urlatore vigoroso e sfrontato, non un singer dal timbro riconoscibilissimo, quanto basta però a dare un’impronta cafona e teppista al nuovo lavoro e a farci capire che di abbassare le creste e di risuonare mansueti e invecchiati, i Discharge non ne hanno proprio voglia. Allo stesso tempo, il songwriting e le scelte di suono assecondano bene la smania di caciare e rivolta ancora insita nella formazione, che sembra vivere in una bolla temporale, fregandosene di qualsiasi evoluzione e cambio di rotta stilistico. In anni in cui il d-beat è andato a insinuarsi dappertutto, eccoci qui a risentirlo nella sua forma più diretta e ruspante, magari non la migliore in circolazione, ma sicuramente ancora fresca e scalpitante, in modalità che dal trio Rainy, Tezz e Bones, fuori dalla band prima degli Anni ’90 e fulcro della stessa dalla reunion ad oggi, non osavamo più attenderci. Gireranno un po’ sempre gli stessi riff nelle quindici tracce di “End Of Days”, però l’insieme di sapori e suggestioni, fatta la tara a una certa ripetitività di fondo che fa un po’ scemare gli entusiasmi in coda alla tracklist, funziona quasi sempre. Si martella, si lotta, ci si divincola fra scatti rapidissimi e assalti convulsi, alternando pochissimi tempi in una stessa traccia e cercando di macinare le corde della chitarra con la stessa foga dei primi anni ’80. Le sei corde grondano come agli inizi profondo malessere, disagio, un senso di apocalisse imminente che è poi il lascito più pregiato di “Hear Nothing See Nothing Say Nothing”. Oramai per certe parentesi molto serrate si potrebbe parlare apertamente di extreme thrash, miscelato a spunti più basilari che attingono a una tradizione punk antica, riconducibile ovviamente ai bassifondi dell’Inghilterra urbana più triste e disperata. Una produzione molto carica, rifinita ma fedele allo spirito animante la musica del quintetto, conferisce la pavimentazione ideale su cui il gruppo può praticare il suo gioco sporco, cattivo, facile da decifrare ma non per questo noioso o poco credibile. “Raped And Pillaged” è l’inno insurrezionale migliore qua dentro, il resto lo segue a ruota sfoderando passione e mestiere in abbondanza. Date una possibilità ai Discharge del 2016, nelle loro vene scorre ancora un pregiato sangue di combattenti.