7.5
- Band: DISENTOMB
- Durata: 00:17:15
- Disponibile dal: 18/10/2024
- Etichetta:
- Unique Leader
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Ogni cinque anni – o giù di lì – i Disentomb riemergono dall’ombra per ribadire la caratura di una proposta sempre più autorevole, efficace e personale, la quale continua a svilupparsi in maniera indipendente da ciò che va per la maggiore nel circuito death metal contemporaneo.
Partiti come una delle tante formazioni cresciute a pane e Unique Leader (quella di una volta!) con l’esordio “Sunken Chambers of Nephilim”, dal secondo full-length “Misery” i Nostri sdoganarono un substrato atmosferico-dissonante che ne indirizzò i passi verso il sentiero tracciato dai mostruosi Ulcerate, per poi ripetere e portare in trionfo la suddetta intuizione con “The Decaying Light”, prova palese di come, anche da basi così oltranziste, fosse possibile scardinare le certezze e aprirsi a nuovi orizzonti musicali, prendendo il meglio dei rispettivi mondi e fondendolo in maniera decisamente spontanea e coerente.
Oggi è quindi la volta di “Nothing Above”, EP di quattro brani per una ventina di minuti di durata che, se possibile, risulta essere un’ulteriore messa a fuoco di questo approccio sospeso fra digressioni visionarie e brutalità senza freni, parentesi stritolanti e arie tenebrose, in cui il guitar work di Jake Wilkes – vero motore del gruppo di Brisbane – alza l’asticella sia in termini di eleganza che di potenza, cavalcando i venti apocalittici alzati da un songwriting che attinge tanto dal repertorio dei neozelandesi o di altri fenomeni come gli Adversarial, quanto da quello di Disgorge e primi Decrept Birth.
Riff lunghi, che si prendono tutto il tempo necessario per evolversi e salire di intensità, sono insomma le fondamenta di un suono ingegnoso e calibrato, in cui non si rintraccia voglia di strafare quanto piuttosto di esplorare la gamma di sensazioni – dominio, ignoto, terrore – accennata dall’artwork.
Un moto sinuoso, un impeto che si propaga dai recessi della mente e del corpo, in grado un momento prima di offrire delle armonizzazioni struggenti, figlie di un capolavoro come “Shrines of Paralysis”, e quello dopo di contrarsi in una serie di spasmi distruttivi durante i quali il frontman Jordan James si erge a mo’ di titano gutturale, sostenuto da una sezione ritmica severa ma vitale.
Un taglio che, a conti fatti, non è né palesemente moderno, né ostinatamente vecchia scuola, e che si colloca in un limbo dove a prevalere è la voglia di esprimersi secondo un linguaggio proprio, incurante di ciò che detta l’hype del momento.
L’unico rammarico, a fronte della bontà dell’insieme e di episodi del calibro di “No God Unconquered” (con ospite Jonny Davy dei Job for a Cowboy), è che il tutto duri così poco, motivo per cui ci auguriamo che un’opera più estesa possa essere già in lavorazione. Un ritorno breve, ma notevole sotto ogni punto di vista.