8.0
- Band: DØDSENGEL
- Durata: 02:30:39
- Disponibile dal: 10/04/2012
- Etichetta:
- Terratvr Possessions
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
L’Inferno ve lo immaginate come ve l’hanno raccontato, roba tipo urla, fuoco, fiamme, gentaccia e quant’altro. E invece pare che non sia proprio così: a sentire i Dødsengel è un posto talmente buio, desolato e vuoto da non poterne definire nemmeno la temperatura, o un suono. E’ un posto di infinita solitudine, un posto dove i frammenti della vostra anima non hanno più luce da specchiare e potete al massimo scrutarvi i riflessi ancora più bui dei vostri personalissimi orrori: questo è il paradigma della dannazione secondo i Dødsengel, e ce lo illustrano per mezzo di un black metal visionario e cerebrale, fatto di chitarre incancrenite che insistono sulla vostra corda emotiva più dolente, di umanità disgregata nella follia e di urla dimentiche d’ogni calore. E’ in questo stato estremo di percezione che emergono le proiezioni basali dell’Io, quelle più rarefatte, che – ad esempio – si possono materializzare come cori disperati e tesi intrecciati alle vibrazioni più animali: i Dødsengel hanno letteralmente assecondato questo stato mentale, seguendolo in un enorme unico bestiale amplesso, un groviglio di ritmi che conducono ritmi in risposta, le cui risonanze hanno partorito una progenie meravigliosa e terribile. Quale altro modo c’è per definire un disco così rarefatto nella carne e denso nell’anima? Quest’opera è in grado di insinuarsi tra le scaglie della vostra pelle come un brivido molesto, e non lasciarvi più fino a che non sarete completamente stritolati dal vostro tremore: come, dunque, non soggiacere al fascino vizioso del filamento d’Inferno che vi sarà acceso dentro? La forma fisica assunta da questo spropositato flusso di spirito si può rendere in modo efficace, ma – per forza di cose – incompleto, richiamando le nere intuizioni dei Celtic Frost di “Into The Pandemonium”, le componenti teatrali e strutturali della musica degli ultimi Emperor e le asperità gelide e primordiali dei primi Darkthrone: il risultato finale suona come se questi ultimi avessero preso i voti di un qualche culto misterico e ci credessero parecchio, con la musica che diviene veicolo di una qualche pretesa sacrale (ascoltate, per dire, il rituale nerissimo raffigurato in “Hymn To Pan”). “Imperator” è una continua mediazione tra la feralità più ardente (l’iniziale “Sun On Earth”, ad esempio) ed una più asettica elevazione spirituale (una fra tutte: “Darkness”), una ciclica e tormentata metamorfosi della disperazione in beatitudine e viceversa, per cui giocano un ruolo fondamentale struttura e interpretazione: la prima nel gestire – sempre in maniera egregia – le abnormi moli di contenuti dell’album, organizzate secondo un songwriting “corposo”, mentre la seconda nel definire esattamente l’istante emotivo rappresentato, tant’è vero che sono stati adoperati tre differenti registri vocali, quasi fossero una campionatura dell’intero spettro emotivo dell’album. Non potrà sfuggirvi, infatti, che le parti più “assorte” vengono affidate al cantato pulito, esemplificatore di uno stato “meditativo” quieto, mentre l’aggressione viene – ovviamente – affidata al growl; lo screaming, intanto, si fa foriero degli inquieti stati intermedi che fanno da ponte, corroborato nell’amalgama da voci femminili quando fatate, quando “strigee” (lasciateci coniare questo neologismo che sta per “tipico di una strega”). Una simile necessità espressiva richiede, inoltre, molto “spazio” per essere esplicata del tutto, ragion per cui “Imperator” dura due ore e mezza (!) e raccoglie ventidue canzoni: è chiaro come i Dødsengel debbano avere dalla propria più di una risorsa compositiva, diversamente si finirebbe per cadere nella noia più radicale. Non c’è da stupirsi, quindi, se si passerà (sia nello stesso pezzo che di canzone in canzone) da tempi sostenuti a tempi strascicati, da melodie anestetizzate a bufere soniche esasperate da dissonanze sature, oppure sublimate dall’esplosione di parti corali spaventosamente belle. Intervengono a dare respiro anche brani strumentali che, per quanto differenti nella forma, presentano tutti lo stesso carattere: un diffuso senso d’angoscia, capace di suscitare turbamento per la sua “piattezza” ossessiva. In definitiva “Imperator” è un lavoro drammatico e grandioso, intenso ed estenuante nell’impatto emotivo, che dovrete ascoltare più e più volte per potervi orientare tra le sue spire ma che, col tempo, vi farà percepire un piano di realtà diverso e più sottile rispetto a quello che frequentate solitamente: non si tratta semplicemente di un disco black metal, ma di un album “totale”, che riesce ad essere sinfonico, letteralmente, senza bisogno delle solite orchestrine.