6.5
- Band: DOEDSVANGR
- Durata: 00:44:44
- Disponibile dal: 29/10/2021
- Etichetta:
- Debemur Morti
- Distributore: Audioglobe
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Per gli amanti del black metal più oltranzista i Doedsvangr non sono una band del tutto sconosciuta. Il combo infatti presenta in quota norvegese Doedsamrial dei Nordjevel e il prezzemolino AntiChristian, più il francese Sébastien Tuvi alla chitarra (noto tra le altre cose per il suo lavoro come ingegnere del suono con gli Antaeus) e, soprattutto, uno dei nomi più iconici della scena finlandese come seconda chitarra e bassista, ossia il sinistro Shautrag.
Come immaginabile, il frutto di questo incontro non è per palati fini, sebbene rispetto al disco d’esordio si noti sempre più una capacità tecnica non indifferente. “Serpents Ov Old” è un disco che evoca tempeste e violenza cieca, ma in cui non pochi passaggi più intricati donano un tocco sperimentale e ancor più soffocante. Da questo punto di vista, il lavoro dietro le pelli di AntiChristian è il punto focale del disco; i pattern quadrati, su cui dimostra di arrivare in scioltezza anche a tempi estremi, cedono spesso spazio a partiture di matrice quasi fusion, più folli, che permettono l’innesto di chitarre libere e sperimentali, persino esotiche nel gusto. Il richiamo più semplice che ci viene di suggerire è a band come Dødheimsgard, o persino i Thorns, grazie all’alternarsi di pezzi complessivamente compatti ma imprevedibili nel loro sviluppo, così come nelle trame vocali, spesso schizoidi e in grado di spaziare dal più truce growl a occasionali gorgheggi. Abbiamo brani come “Flagelist”, esaltante e sanguinaria, oppure “Imperialis”, che si regge ottimamente su un uptempo esaltante. Su “White Finger” imperano effetti e distorsioni, che unite a una cadenza marziale e a una linea vocale piuttosto contorta e psicotica, ne fanno un brano angoscioso e di forte impatto, mentre a seguire si punta su ritmiche incalzanti e violente, dalla vorticosa “Black Dragon Phoenix”, arrivando a “The Salt Marsh”, più spigolosa e squillante nelle sonorità. I brani più brevi risultano anche i più riusciti, grazie a una sintesi più coinvolgente, anche se i due momenti più lunghi, giungendo a metà e fine disco, sembrano cadenzare l’ascolto e richiamare l’attenzione, senza appesantire troppo l’ascolto.
Tutto perfetto, quindi? Diciamo che il mestiere si sente, così come un suono personale e consapevole; ma allo stesso tempo, anche solo guardando al curriculum di Shatraug, la furia sonora risulta già sentita e le sperimentazioni sono troppo ‘semplici’ per emergere dalla folta massa dei concorrenti.