8.0
- Band: DOOL
- Durata: 00:54:30
- Disponibile dal: 10/04/2020
- Etichetta:
- Prophecy Productions
- Distributore: Audioglobe
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Se nel nome vi è il destino di un gruppo, i Dool ne sono una valente dimostrazione. Termine olandese traducibile con ‘vagare, vagabondare’, ‘dool’ esprime concisamente l’umoralità stilistica ed emozionale del quintetto di Rotterdam. Giunto a turbare i nostri sonni tre anni fa con il fulminante esordio “Here Now, There Then”, ha visto crescere l’appeal underground grazie a una campagna concertistica trionfale, che ha ammaliato platee di tutta Europa, scavandosi una sua piccola nicchia perfino nel nostro paese. Era quindi lecita un’attesa palpitante per il secondo full-length, che coraggiosamente va in parte a modificare le coordinate del primo album. La musica si è fatta generalmente meno immediata, perdendo spesso quell’incalzare impetuoso che rendeva subito attraenti canzoni come “Words On Paper” e “Oweynagat”. L’appeal prettamente metallico della formazione, ben in primo piano in “Here Now, There Then”, va lievemente scemando, la distorsione chitarristica si stempera e le connotazioni doom si affievoliscono, a favore di riflessività e velature sonore raffinate, che diventano il tratto preponderante di “Summerland”.
“Summerland”, parola che nella cultura pagana esprime il concetto di paradiso o nirvana, la ricerca del quale diventa il filone tematico delle liriche, scritte ancora una volta dalla leader carismatica Ryanne van Dorst. La sua voce e la sua chitarra, in elettrico e acustico, rappresentano i punti focali della narrazione ed è evidente da questi due fattori quali siano le differenze con il disco precedente: l’irruenza della singer rimane contenuta, la sua voce si fa spesso flebile, pacata, privandoci di quelle impennate iraconde che prendevano la scena a piè sospinto nell’esordio. Le acustiche, che andavano a incanalarsi in una rara potenza nel lavoro di tre anni fa, a loro volta permangono in una tranquillità onirica di ambito folk-cantautorale, assecondano le divagazioni psichedeliche senza andarne a rompere l’incanto. Arpeggiati e soliste tenui si saldano in dormiveglia estatici, disseminati di piccole variazioni che difficilmente provocano brusche increspature al tessuto sonoro. L’impatto fragoroso delle tre chitarre, l’irresistibile grondare di note divenuto marchio di fabbrica soprattutto dal vivo, qui gioca a carte coperte, diluendosi in ricami eleganti, melodie di sapore mediorientale richiedenti qualche ascolto per essere ben assimilate e apprezzate.
Le interazioni chitarristiche disegnano quadri scenografici, però lo fanno senza calcare la mano, a tinte rarefatte. Se “Here Now, There Then” viveva di chiaroscuri ma prevedeva lampi accecanti, scarti netti, vampate di calore e iniezioni di adrenalina, “Summerland” ha un passo calmo, non ama i cambi di luce, è perennemente ombroso e pervaso da un alone di irreale magia, evocando proprio quell’idea di luogo ideale, pacificato, sublime che il titolo suggerisce. I primi due singoli “Sulhur & Starlight” e “Wolf Moon” dettano una linea che non viene mai interrotta nelle altre sette tracce, gravide di mistero ed esotismo, incavi dai quali trarre modulazioni inedite ma che difficilmente potranno stupire al primo ascolto. I crescendo di “God Particle”, le spire occulte della titletrack e il basso tumultuante di “Be Your Sins”, forse l’unico brano che sarebbe potuto comparire nella tracklist di “Here Now, There Then” senza sembrare fuori posto, possono servire da bussola per orientarsi nel vasto universo di “Summerland”. Probabile che il disco non trovi l’uniformità di consensi del predecessore, per quanto ci riguarda i Dool si sono confermati all’altezza delle aspettative.