8.0
- Band: DOOL
- Durata: 00:49:39
- Disponibile dal: 19/04/2024
- Etichetta:
- Prophecy Productions
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Sul concetto di ‘fluidità’, di questi tempi, se ne sentono di cotte e di crude, ma non sarà di certo questa la sede nella quale ne andremo a dibattere in maniera dotta e approfondita. Sicuramente, nel caso dei Dool che vi fanno riferimento per il titolo del loro terzo album “The Shape Of Fluidity”, il significato del termine ‘fluido’ ha una sua ragione d’essere: in prima battuta per il vissuto della sua leader Raven van Dorst, in secondo luogo per una musica nata dalla fusione di molteplici generi ed evolutasi in breve tempo verso una direzione ancora più personale e fuori da canoni di facile riferimento.
Il titolo, per l’appunto, riflette sulla capacità di mantenere una propria identità in un mondo in inarrestabile cambiamento, la cui velocità nel trasformarsi spesso disorienta e lascia smarriti. Rimanere ben saldi e non perdere se stessi, nel contesto attuale, è impresa non semplice e pare sia da qui, prendendo per mano la mutevolezza dei tempi e delle note, che i Dool partono e si lasciano andare. Con loro, si ha quella piacevole sensazione di sapere chi siano e come vogliano ammaliarci, ma si percepisce anche che non ci andranno semplicemente ad accontentare, a sfamare di qualcosa che già conosciamo. Se i testi diventano ancora più personali e incentrati sulle domande esistenziali della camaleontica van Dorst, lo stesso fa la musica, prendendo una piega ancora più ingannevole, sorniona e di ampie vedute dei primi due album.
Se “Summerland” andava già a staccarsi, per un’impronta più nebbiosa e indefinita, dal trascinante esordio “Here Now, There Then”, “The Shape Of Fluidity” è indubbiamente il prodotto della stessa band che ha scritto i predecessori, ma non li va a richiamare esplicitamente, condensando l’impasto di doom, hard rock, post-metal e rock, darkwave in una sostanza ancora più stratificata ed ermetica. Il dualismo tra severo, debordante, impatto – meglio apprezzabile dal vivo, dove le tre chitarre deflagrano al massimo del potenziale – e intimismo, si fa ancora meno prevedibile e si aggiungono suggestioni, in una tracklist dalle tante facce e che poco si presta a un ascolto distratto.
L’incontro di elettrico ed acustico dona sfumature parzialmente inedite alla musica del gruppo, che in molti frangenti diviene una sorta di cantilena incantatrice, spaziando tra doom e influssi gotici con una sua magnetica autorevolezza, flettendo la materia oscura alle proprie personali esigenze. La centralità della van Dorst e della sua inconfondibile voce si spande a una specie di tono da crooner, percepibile sia nei momenti più quieti che in quelli elettrici ed avvolgenti. Si sente che il lavoro di chitarra si è fatto ancora più ricco di quanto già non fosse, attraverso una miscellanea di interazioni, sovrapposizioni e contrasti che rifugge linguaggi facili e immediati, preferisce piuttosto un lavorio ai fianchi, inizialmente poco chiaro in tutte le sue sembianze e restio ad aprirsi a una comunicazione diretta.
Non si sono ritornelli orecchiabili o stacchi travolgenti a far alzare il coefficiente di adrenalina, così come non ci sono spartiti nettamente doom a inghiottirci nell’oscurità: il primo singolo e traccia d’apertura “Venus In Flames” e la seguente “Self-Dissect” giocano coi toni metal per farci entrare in un mondo di chiaroscuri tremebondi, tenendoci sospesi, tra attimi di plumbea stasi e progressioni fragorose, il cui punto di approdo è la ridiscesa in un variegato, fascinoso intimismo. Gli arpeggiati viaggiano di pari passo ad armonie lunghe ed eleganti, il suono sembra arrivare da più parti, come se ad ogni passaggio della stessa canzone questa si trasformasse e potesse apparire sotto una luce differente.
In confronto a “Summerland”, i Dool rispolverano maggiore grinta e urgenza, ma sono soluzioni funzionali a farci perdere in un labirinto sensoriale impalpabile e incantatore. La durezza chitarrista va allora a sciogliersi in andamenti dolceamari, come quelli della sospirante titletrack. E se la concisa “Evil In You” poteva anche starsene nella tracklist di “Here Now, There Then”, tanto ha un formato deciso e lineare, la seconda metà della tracklist va ad infondere ulteriore astrattismo alla narrazione.
Lo struggimento del violino e di una calda voce maschile – nelle note di presentazione non vi è fatta menzione a chi appartenga – adombrano gli umori di “House Of A Thousand Dreams”, quasi un incontro tra gothic metal nordico e hard rock; mentre sulle conclusive “Hymn For A Memory Lost” e “The Hand Of Creation” gli spazi si allargano, le modulazioni vocali della van Dorst diventano ancora più centrali e il suono si diluisce in una matassa setosa e distesa, pur ancora capace di sprazzi di immaginifica potenza.
“The Shape Of Fluidity” tiene in effetti fede al suo titolo e presenta una tracklist dove il comune denominatore è proprio la variabilità stilistica, partendo da principi chiari e mai traditi da una canzone all’altra. Un’opera non facile, che alcuni troveranno – comprensibilmente – fin troppo ermetica, eppure anche stavolta portatrice di grandi significati.