8.0
- Band: DORMANT ORDEAL
- Durata: 00:39:30
- Disponibile dal: 03/12/2021
- Etichetta:
- Selfmadegod Records
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Quando ormai ci eravamo dimenticati di loro, i Dormant Ordeal decidono di emergere dal torpore in cui erano caduti dopo la pubblicazione di “We Had It Coming” (2016) e consegnarci un terzo full-length semplicemente eccellente. Quaranta minuti di musica che reclamano a gran voce l’attenzione di chi vede nel metal estremo un flusso catartico al quale abbandonarsi per cercare rifugio da una quotidianità spesso tediosa e banale; un viaggio immaginifico che, similmente al paesaggio immortalato in copertina, esplora una Natura insieme maestosa e solitaria, fredda e inospitale, stanca degli interventi dell’uomo e del suo costante brusio di sottofondo. La riprova di come raccoglimento e basso profilo, il più delle volte, siano fondamentali per confezionare opere destinate a durare nel tempo.
Già autori in passato di un death metal moderno e fortemente umorale, in “The Grand Scheme of Things” i Nostri affinano quel tanto che basta la loro scrittura da renderla sia più profonda e stratificata, sia più fluida e impattante, in un bilanciamento pressoché perfetto di introspezione e ferocia. Una proposta lungi dal volersi parare gli occhi o dall’ignorare input esterni utili a delineare meglio il concept del gruppo di Cracovia, e che parte dalla severità ritmica di certi Nile, si sviluppa secondo il riffing inconfondibile dei vicini di casa Decapitated (periodo “The Negation”/“Organic Hallucinosis”) e sfuma in una tavolozza di colori grigiastri in grado di evocare le atmosfere e le dissonanze di realtà del mondo ‘post’ come Ulcerate e Cult of Luna, i Gojira di “From Mars to Sirius” o gli Svartidauði presi nei momenti più melodici dell’ultimo “Revelations of the Red Sword”, per un risultato finale eterogeneo eppure coerente in ognuna delle sue molteplici contrazioni e distensioni. Oltre alla spiccata personalità in fase di commistione, la quale non rende mai eccessivo il peso di simili influenze sulle spalle, della tracklist piacciono soprattutto la scorrevolezza e la capacità di condensare le (tante) idee in brani dal minutaggio contenuto, frutto di un background prettamente death metal che porta la band del batterista/leader Radek Kowal a non disperdere le energie e a mantenere viva la fiamma dell’attenzione dal primo all’ultimo passaggio.
Un incedere ora sincopato e brutale, ora epico e malinconico, ricco di straordinarie armonie a livello chitarristico e di dettagli che diventano via via più evidenti con il passare degli ascolti, il cui peso specifico è tutto racchiuso nella meravigliosa conclusione affidata a “The Borders of Our Language Are not the Borders of Our World”. A mani basse, l’ultima grande rivelazione estrema dell’anno.