9.5
- Band: DOWN
- Durata: 00:56:39
- Disponibile dal: 19/09/1995
- Etichetta:
- Elektra Records
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Cosa è il manifesto di un genere musicale? Forse un concerto? No, vi hanno accesso solo coloro che sono presenti, ed una eventuale registrazione video di questo tipo di evento non è paragonabile con l’evento stesso. Allora forse è il disco migliore di questo genere? Nemmeno, quello di disco migliore è un concetto troppo soggettivo per poter essere adoperato senza ambiguità di sorta: serve un criterio più oggettivo. Si potrebbe proporre il primo disco del genere, ma nemmeno questa è una scienza esatta. La strada più agilmente percorribile è dunque quella della rappresentatività dell’opera in questione: serve un disco che sia rappresentativo, dunque uscito al momento giusto e che magari coinvolga i nomi giusti. “Nola”, primo album dei Down, gode di tutte queste caratteristiche: esce nel 1995, quando il movimento noto come “southern-sludge” è nato da un po’ e vede ampliare le sue frontiere di giorno in giorno rimanendo, tuttavia, un fenomeno ancora deliziosamente underground, aspetto che ne preserva la purezza espressiva. Si tratta di un disco non certo concepito per il grande mercato, ma finito in pasto ad esso grazie ai nomi, i succitati giusti nomi, che l’hanno concepito: Kirk Windstein, deus ex-machina dei Crowbar; Pepper Keenan, prima linea dei Corrosion Of Conformity; Jimmy Bower, membro fondamentale degli Eyehategod, già con Crowbar, Corrosion Of Conformity e (poi) Superjoint Ritual; Phil Anselmo, all’epoca nei Pantera, icona di tutti i debosciati che hanno col mondo e nel mondo un problema; Todd Strange, enorme bassista dei Crowbar, accreditato sul disco (dove il basso è in realtà suonato da Pepper Keenan) ma presente solo durante le esibizioni dal vivo. La musica incisa su questo album è delle più nere possibili: non stiamo parlando di moderni giovanotti pittati che, dopo la Playstation, se la prendono con le icone sacre, ma di gente che appena sveglia sa già di essere sconfitta, schiacciata da un’ingombrante assenza di prospettive, in grado di praticare solamente una via: quella dell’autodistruzione. Le canzoni riflettono in pieno questa realtà, tanto al livello lirico (“Underneath Everything”: col suo classico giro blues è un’ode al perdente che arranca ogni giorno contro se stesso, assecondando tuttavia ogni sua debolezza), quanto al livello sonoro, grazie a chitarre che suonano sporche e grasse come la morca, al tono terroso del basso e al tocco ineducato del batterista. Ovviamente anche grazie alla voce di Phil Anselmo, indecisa tra un colpo di tosse e un’esternazione rabbiosa per tutto il minutaggio dell’album. L’insolito – per l’epoca – mostro sonico, che ci auguriamo abbiate tra le mani in rapporto di almeno uno ogni tre, coniuga in maniera perfetta le radici del gruppo con le sue intenzioni: il riffing è di chiara origine sabbathiana, generalmente scandito con lo stesso approccio nervoso di gruppi come i Black Flag – e non sgranate gli occhi, altrimenti ci farete capire che non conoscete “Lifer” e i suoi riff ansiogeni, il che non sarebbe una gran figura da parte vostra. Ovviamente la musica dei Down non si ferma alla mera definizione della sua struttura, ma è ricca di suggestioni che vi si sveleranno durante l’ascolto e si lasceranno percepire da voi come pennellate di grigio, nelle tonalità più disperate, su di una tela nera: vi esalterete con l’epos southern, ora mediato da suggestioni zeppeliniane come in “Temptations Wing”; ora terremotante grazie alle accezioni metallose di “Eyes Of The South”, che parte sonnolenta e poi vi esplode in faccia come un cazzotto in una rissa; infine struggente grazie alla tradizione blues di “Stone The Crow”, in cui Phil Anselmo fa uno dei suoi dolorosi resoconti di vita. Vi riconoscerete, ahivoi, nel thanatos di pezzi come “Hail The Leaf”, blandamente ingolfato come voi ogni volta che eccedete “quel” limite, e “Bury Me In Smoke”, la danza di morte che chiude il disco con l’ultima dose di spasmi nichilisti. Vi immalinconirete, in ultimo, con le suggestioni acustiche e melodiche che, pur comparendo in vari pezzi, trovano la loro forma completa e definitiva nell’atmosferica “Jail”, capace di mettere da parte l’astio e la rabbia in favore di un approccio più riflessivo.