7.5
- Band: DRAGGED INTO SUNLIGHT
- Durata: 00:39:50
- Disponibile dal: 06/11/2012
- Etichetta:
- Prosthetic Records
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
I Dragged Into Sunlight sono arrivati solo al secondo disco ma già mostrano la sicurezza, la confidenza, la spavalderia e soprattutto le palle di quelle band che sono in giro da decenni e che non hanno paura di niente e di nessuno. La giovane compagine extreme metal londinese sembra aver già archiviato infatti quello straziante marasma di death metal, black metal, grind e prog che stava alla base di “Hatred For Mankind”, e sembra essere da un lato andata oltre, sfondando la porta del post-metal a calci e facendo come fossero a casa propria, e dall’altro sembra aver azzerato tutto per ricominciare da capo ed intraprendere una direzione tutta diversa. “Widowmaker” infatti vede i Nostri principalmente abbandonare – o per lo meno smorzare – quell’assalto death-black quasi cieco, sferzante e vile che permeava il debutto per buttarsi in una proposta ben più astratta e molto meno ovvia. “Widowmaker” dura una quarantina di minuti ma vive attraverso tre tracce solamente, segno inequivocabile che stavolta siamo di fronte ad un lavoro che offre pochi appigli stilistici e formali e che sembra voler sviluppare un discorso tutto suo, dalla natura intrinseca ermetica, sfuggente e difficilmente inquadrabile. In generale le ritmiche e le atmosfere si sono fatte ben più dilatate, tracimanti, comatose e disperate che in passato, evocando scenari sludge-doom per nulla velati e aprendo delle chiuse stilistiche che hanno inondato il sound dei Nostri di elementi noise, ambient e prog dal fortissimo retrogusto “post”. Ciò ha di fatto permesso alla band londinese di mantenere un piede ben saldo nel mondo dell’extreme metal più degenerato senza però cedere di un millimetro in violenza e crudeltà, e di mettere l’altro nel mondo alienante ed ermetico di band come i Neurosis che fanno scempio di stili, convenzioni e generi musicali in ragion di una spinta avanguardistica e sperimentatrice sempre impulsiva e irrefrenabile. “Part I” infatti non è altro che un quarto d’ora di minimalismo unplugged a base di chitarra acustica e violini. Il pezzo potrebbe rappresentare una sconfitta immediata per la band che ha misteriosamente deciso di usare oltre un terzo dello spazio a disposizione nel disco (una enormità) per sviluppare una proposta musicale che offre pochissimo sotto l’aspetto sostanziale di ciò che vorremmo sentire dai Dragged Into Sunlight. Ma giunti alla fine di questo primo dei tre capitoli ci si accorge che in oltre quattordici minuti di mortifero minimalismo la band ha fatto dondolare il nostro cervello ipnotizzato in una cripta di solitudine vacua e completamente desolata nella quale sentiamo di non poter restare un secondo di più. E quando la band decide di sollevarci da questo malessere non fa altro che prenderci per i capelli e scaraventarci in un baratro di violenza inaudita con una “Part II” di “Widowmaker” che è praticamente una fossa comune del buon senso musicale: sfuriate death-black insensate, scalate progressive scorticanti che ricordano i momenti più obliqui dei Deathspell Omega, e ritmiche sludgy e doomy talmente comatose da ricordare la sofferente decomposizione musicale dei Corrupted o dei Moss. Il finale del pezzo, in cui fa anche la sua sporca figura un violino letteralmente arroventato dall’odio, è il climax assoluto del disco. Un build up colossale che porta ad un finale stratosferico in cui death metal, black metal e space rock sono tutti amalgamati in un meteorite di odio impazzito che, impattando nel finale con una veemenza squassante, ricorda in maniera incredibile e avvincente il finale colossale di “Stones From The Sky” dei Neurosis. “Part III” riparte dalle tenebrose e nefaste fogne del doom metal più regresso e ritesse piano piano ma in maniera implacabile le trame di un altro quarto d’ora di inferno sonico totale, aggiungendo altri tredici minuti di avveniristico e crudelissimo genio post-doom ai già stupefacenti undici minuti di “Part II”. “Widowmaker” è insomma un prodotto che mostra tutti i difetti e i pregi di tutti quei lavori che derivano da una qualche forma di genio e intraprendenza irrefrenabile. Il pezzo più lungo del disco, ovvero oltre un terzo di esso, è una composizione minimal-acustica che erode in maniera paurosa il valore complessivo del lavoro. Ma solo una band con due palle enormi farebbe una scelta simile con tale disinvoltura, addirittura schiaffando il brano in apertura. I rimanenti due terzi del lavoro invece sono un vero supplizio, un olocausto di rumore immondo in cui la band tenta di inorridirci con qualunque genere estremo sia in grado di brandire. E sono davvero tanti: death metal, black metal, noise, grind, sludge, doom, e chi più ne ha più ne metta. L’amalgama non sempre è “tondo” e a fuoco – vedasi come esempio gli intermezzi quasi shoegazy è un tantino fuori posto che punteggiano la metà di “Part III” – ma per il resto siamo davvero di fronte ad una band in crescita verticale ed esponenziale che, grazie ad un coraggio musicale e ad un’intraprendenza stilistica che sembrano incontenibili, sta davvero creando uno scompiglio enorme nel mondo dell’extreme metal più violento, cervellotico e non convenzionale. Ritorno senza dubbio “diverso” e inaspettato ma pur sempre veicolo di un genio evidente ed innegabile.