7.5
- Band: DREAM THEATER
- Durata: 01:00:51
- Disponibile dal: 22/02/2019
- Etichetta:
- Inside Out
- Distributore: Sony
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Come già affermato in numerose occasioni, ogni volta che viene annunciato un nuovo album in studio dei Dream Theater è sempre un momento di forte tensione per una buona parte del pubblico metal mondiale, il quale sa già bene a quali situazioni sarà possibile andare incontro: dopo l’inevitabile periodo antecedente, in cui iniziano a serpeggiare dubbi e domande su quelle che saranno le scelte compositive e strutturali, al momento dell’uscita saranno pressoché inevitabili gli scontri di opinioni tra chi boccerà l’album per le proprie ragioni, e chi invece lo promuoverà per altre. A prescindere da quelli che possono essere i pareri personali, sarebbe a dir poco da blasfemi mettere in dubbio le capacità di John Petrucci e soci di confezionare un prodotto comunque ricco di spunti interessanti e colmi di complessità e sfaccettature più o meno enfatizzate; resta solo da capire quanto, una volta prese nel loro complesso, queste ultime saranno in grado di convincere un numero più nutrito possibile di estimatori del progressive metal nella sua forma più pura.
Avendo già pubblicato un esaustivo track by track, risulteremmo relativamente prolissi nel descrivere nuovamente ogni singolo brano; piuttosto, vogliamo proporre un’analisi generale di quello che, nel bene o nel male, sarà comunque uno dei prodotti più rappresentativi di questa prima parte del nuovo anno.
Per quanto possa apparire evidente la volontà dei Dream Theater di realizzare un album più immediato e metallico rispetto a quanto fatto negli ultimi anni, fortemente ispirato in questo caso a quello che era il progressive metal di una volta, non si può certo dire che il nuovo “Distance Over Time” manchi di varietà e ispirazione: si passa da brani aggressivi e abbastanza semplici da assimilare come la ormai ben nota “Untethered Angel” o l’enigmatica e movimentata “S2N”, ad altri decisamente più cupi e/o malinconici, tra cui la quasi dissonante “Room 137”, composta per buona parte dal drummer Mike Mangini, o la ballad “Out Of Reach”, che siamo certi genererà più di una controversia per via della sua natura decisamente orecchiabile. Tuttavia, queste considerazioni lasciano abbastanza il tempo che trovano, alla luce del fatto che quasi ogni singolo brano tende a mutare e modulare nei minuti seguenti i primi rintocchi. Basti pensare al secondo singolo “Fall Into The Light” e al suo inizio ‘Metallica-style’, cui segue una deriva decisamente più introspettiva; o anche la psichedelica “Barstool Warrior”, che passa da una sorta di retrogusto anni ’70 a delle atmosfere tutto sommato allegre e luminose, seppur temporaneamente. Inoltre, notiamo con discreto stupore che all’interno della tracklist non è presente nessun brano di durata superiore ai nove minuti e mezzo dell’elaborata “At Wit’s End”, che è anche la traccia più vicina stilisticamente a quanto fatto dai Dream Theater negli ultimi quindici anni di carriera. Menzione positiva anche per il finale sorretto dalla corposa “Pale Blue Dot”, all’interno della quale si sprecano i tanto attesi duelli a colpi di virtuosismi, alternati a numerose citazioni al glorioso passato della band stessa.
A livello esecutivo siamo come sempre su livelli quasi spaziali, soprattutto per quanto riguarda il trittico Petrucci/Myung/Rudess, il cui contributo risulta sempre essere la prima cosa che salta all’orecchio in ogni singolo passaggio; idem il comparto vocale ad opera del buon James LaBrie, anche se l’utilizzo a tratti eccessivo di effetti potrebbe far storcere il naso ad alcuni ascoltatori non particolarmente affezionati a determinate soluzioni “artificiali”. Per quanto riguarda Mike Mangini, invece, sta tutto all’opinione singola del fruitore: a livello tecnico naturalmente c’è ben poco da criticare, ma risulteremmo bugiardi a non ammettere di provare ancora un leggero senso di nostalgia nei confronti del suo illustre predecessore, Mike Portnoy.
Prima di giungere alle considerazioni finali, consigliamo ai fan di accaparrarsi una copia in digipak (o in vinile) dell’album, poiché la bonus track “Viper King” risulta essere una delle più divertenti e gasanti dell’intero pacchetto, in grado di far apparire i Dream Theater sotto una luce totalmente diversa rispetto al solito.
In conclusione, si tratta sicuramente di un album che non potrà accontentare tutti, soprattutto a causa di quel leggero alone di semplicità tipicamente heavy metal che permea buona parte della tracklist; tuttavia, è anche vero che l’effetto fosse voluto sin dall’inizio, così come la sua struttura più immediata e meno tirata per le lunghe, che chi scrive apprezzato non poco, anche in paragone a un lavoro come il precedente “The Astonishing”, che a parere di molti trovava nella prolissità il proprio difetto principale. Sicuramente non sono state adeguatamente sfruttate alcune idee potenzialmente vincenti, che avrebbero forse permesso al lavoro di entrare al volo tra i migliori dischi dell’anno, ma la qualità c’è e sarebbe sbagliato non riconoscerlo.
Se vi piace il progressive metal, per forza di cose sarete cresciuti anche insieme ai Dream Theater, e se apprezzate delle scelte musicali che richiamano su più versanti le origini del genere, unite a delle tematiche interessanti e legate tanto al classico, quanto al moderno, allora “Distance Over Time” può decisamente fare per voi. Se invece ritenete che il nome di John Petrucci, James LaBrie e soci sia ormai da associare a un certo tipo di complessità musicale più o meno forzata, allora fate pure a meno di includerlo nella vostra collezione, ma non prima di avergli dato almeno una possibilità.