6.5
- Band: DUFF MCKAGAN
- Durata: 00:41:00
- Disponibile dal: 20/10/2023
- Distributore: Sony
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Che Duff abbia abbracciato una vena cantautorale intimista è cosa ormai nota, soprattutto dopo la pubblicazione del suo precedente lavoro solista, “Tenderness”, in cui il bassista firmava una manciata di canzoni quasi totalmente acustiche, da cantare e suonare con un cappello da cowboy in testa, in un’atmosfera raccolta e quieta.
Chi scrive aveva apprezzato quel lavoro e ci sembra anche comprensibile che un artista voglia dare sfogo nella sua carriera solista a quelle pulsioni che difficilmente potrebbero trovare spazio sotto il marchio della propria band madre.
Se però la direzione artistica di “Tenderness” ci era parsa chiara e coerente, “Lighthouse” ci ha lasciato spiazzati, con una raccolta di canzoni molto diverse tra loro tanto da risultare un po’ confuse: così abbiamo la title-track che riprende le atmosfere acustiche di “Tenderness”, ma con una vena spiritual corale che emerge nella seconda parte del brano; “Holy Water” è brano quasi indie-rock piuttosto blando e poco incisivo; “Fallen Down” e “Forgiveness” si spostano in territori malinconici, con due ballad molto classiche nella struttura, ma indubbiamente ben fatte; “To The Fallen Ones” flirta con il blues, con buoni risultati, mentre dobbiamo aspettare “Just Another Shakedown” per rivedere qualche barlume di quella vena punk che il buon Duff ha sempre coltivato con orgoglio.
Piuttosto deludenti, invece, i contributi degli ospiti di lusso che chiudono il disco: “Hope”, che vede alla chitarra il compagno di band Slash, è probabilmente il pezzo peggiore del lotto, totalmente anonimo sia nella scrittura che nell’esecuzione; “I Just Don’t Know”, invece, può vantare un piccolo assolo di Jerry Cantrell degli Alice In Chains, ma la canzone in sé non è altro che l’ennesimo brano acustico che poco aggiunge a quanto detto finora.
Infine tocca a Iggy Pop, il cui contributo è se possibile ancora meno ispirato dei precedenti: l’Iguana del rock si limita ad un brevissimo intermezzo parlato, con il suo vocione cavernoso a declamare i versi di “Lighthouse”, accompagnato dal tema ascoltato in apertura, in una versione minimale. Una cosa registrata in cinque minuti, giusto per accontentare un amico, ma senza il benchè minimo interesse per chi fosse curioso di vedere i frutti di una collaborazione tra i due.
“Lighthouse”, insomma, è un disco fatto di luci ed ombre, che certamente ha permesso a Duff di esercitare una maggiore libertà, ma che di fatto convince a pieno solo in pochi episodi, spesso proprio i più delicati, quelli vicini allo stile di “Tenderness”.
Se mai ci sarà un nuovo album dei Guns N’ Roses, forse solo allora scopriremo se il bassista saprà ancora regalarci qualche bel graffio hard rock: non ci speriamo più di tanto, soprattutto alla luce dei pochi singoli recuperati da Axl e soci, ma, come si dice in questi casi, mai dire mai.