7.5
- Band: DYING FETUS
- Durata: 00:37:29
- Disponibile dal: 08/09/2023
- Etichetta:
- Relapse Records
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Anticipato da una serie di singoli che a molti avevano riportato alla mente il detto “tre indizi fanno una prova”, in riferimento al potenziale valore del suo contenuto, il ritorno dei Dying Fetus è esattamente quello che ci voleva per risollevare le quotazioni discografiche della band dopo un paio di capitoli – “Reign Supreme” e “Wrong One to Fuck With” – non proprio a fuoco, lontani per autorevolezza e ispirazione da quanto espresso nei momenti migliori della carriera. Un album che, a differenza del suddetto lavoro del 2017, affianca una confezione innegabilmente ‘sporca’ (titolo e copertina parlano da soli, in questo senso) con un suono che bada al sodo, taglia corto con i tecnicismi più sterili e ostentati e volge lo sguardo al passato per rendere nuovamente rilevante il presente, potendo inoltre contare su una produzione poderosa supervisionata anche dall’affidabile Mark Lewis (Cannibal Corpse, Deicide, Monstrosity).
Un’operazione nostalgia sfacciatissima che, dati alla mano, si limita a strizzare l’occhio a varie fasi del gruppo originario di Baltimore, senza nessuna intenzione di uscire da quel seminato brutal-core che lo stesso progetto del cantante/chitarrista John Gallagher ha coniato e reso seminale, ma che al contempo (e la differenza, in fondo, sta tutta qui) si regge su un songwriting efficace e vitale come non si sentiva da quasi quindici anni, tanto da smussare la malizia delle numerose autocitazioni disseminate lungo la tracklist. Del resto, in una proposta come quella dei Dying Fetus, quando il riff ‘gira’ il resto viene da sé, e per fortuna i brani di “Make Them Beg for Death” non lesinano in soluzioni e passaggi che consentono di riassaporare la violenza urbana di un tempo, quel mix dinamico e contagioso di death, grind e hardcore fondamentale per la nascita del movimento death-core e reso leggendario da opere come “Killing on Adrenaline” e “Destroy the Opposition”.
Una prova di scrittura che è anche la riaffermazione di un canone estetico per un certo periodo appannatosi, e che ora – complice forse una lavorazione priva di scadenze stringenti, visto il lungo stop della pandemia – torna a combinare groove e tecnica, impatto e orecchiabilità, con esiti quantomeno degni di nota. Così, se “Compulsion for Cruelty” sarebbe potuta uscire senza problemi da “Stop at Nothing”, “Throw Them in the Van” ci riporta addirittura alla ferocia e ai minutaggi spicci di “Kill Your Mother/Rape Your Dog” e “Pissing in the Mainstream”, con “Feast of Ashes” che, posizionandosi tra questi due pezzi, rispolvera le trame vorticose di metà anni Duemila in un avvio tanto paraculo quanto trascinante. Più in là, non mancano episodi standard che poco tolgono e poco aggiungono al discorso generale (“Undulating Carnage”, “Raised in Victory / Razed in Defeat”), ma nell’insieme – lo ripetiamo – non si scende mai sotto livelli decorosi (con il finale di “Subterfuge” a regalare un’altra pregevole manata old-school), a riprova di come la premiata ditta Gallagher/Beasley/Williams si sia impegnata per fare le cose come si deve, forte di una visione e di un entusiasmo rinnovati.
E se i dischi death metal dell’anno, a nostro avviso, sono altri, nulla toglie a questi trentasette minuti di musica il merito di suonare fluidi, pimpanti e di riconnetterci (anche in studio, oltre che dal vivo) ai loro autori, musicisti che in un modo o nell’altro porteremo sempre nel cuore. Difficile, nel 2023, chiedere di più a questo trio di veterani.